Maieti è un cortometraggio diretto da Matteo Boscolo Gioachina e Daniele Caruso. Sceneggiata assieme a Daniela Beshai e Gaia Longobardi, l’opera prima dei due giovani esordienti ha trionfato nella sezione dedicati ai corti della scorsa edizione del festival Alice nella città.
Il lavoro è stato realizzato in collaborazione con la milanese Nuova Accademia di Belle Arti e distribuito dalla Premiere Film-Festival Distribution.
La trama di Maieti
Miriam (Miriam Karbal) è una ragazza di 17 anni, egiziana di seconda generazione. Vive con sua madre e le sue sorelline a Milano, e come loro ha tatuata una piccola croce sul polso, segno identificativo della comunità copta ortodossa. Per Miriam quella croce diventa sempre più pesante, come le responsabilità nei confronti della famiglia, da cui tenta di evadere cercando un appiglio nel gruppo di amici.
Per un cinema intimo…
La storia di Miriam è quella di tante altre persone. Una voce che dall’alto anticipa e incardina la visione. Così inizia Maieti: con le parole rituali di un sacerdote copto, mentre si prepara a battezzare la protagonista. Questo inizio così netto e rigoroso rappresenta una presa di posizione molto forte rispetto al personaggio, che fin dalla nascita si ritrova incapace di scegliere, dunque di agire di suo conto, come Beau nell’ultimo lungometraggio di Ari Aster.
Ma mentre il regista statunitense indaga una condotta individuale, isolata, qui Caruso e Gioachina si soffermano su una condotta comunitaria, di cui Miriam è l’ultima vittima. Alla sclerotizzazione del pensiero religioso corrisponde un chiudersi del rapporto d’aspetto dell’immagine, che con un poetico 3:2 ci mette i paraocchi, permettendoci soltanto di contemplare la purezza e l’innocenza dei volti. La loro intrinseca bellezza va oltre qualsiasi formalizzazione culturale, che per Miriam è addirittura un marchio indelebile sulla pelle. Come spettatori ci rimane persino il dubbio sul fatto che, forse, non vorremmo nemmeno si ampliasse il formato dell’inquadratura, tanto è intenso quanto resta in campo. A tal proposito viene spontaneo pensare ai primissimi piani di Closer, o ai ritratti glamour di Saltburn, nonostante il film della Fennell sia posteriore al lavoro qui analizzato.
…e di carattere
Ma questa chiusura è anche il riflesso della quotidianità stantia a cui è costretta Miriam. Come il sacerdote è una voce interiorizzata, che limita la ragazza nell’esprimersi con gli altri, così la voce materna segue lo stesso insegnamento della comunione copta, costringendo la figlia a una frustrante ritualità del quotidiano. Disturbando brevemente Aristotele, il fulcro del dramma è l’azione. Ma l’azione deriva da una scelta che il personaggio compie, motivato da un carattere. E se l’azione viene a mancare, così com’è stato per Miriam fin dall’inizio, allora non può esserci dramma. Quindi, secondo uno dei topos di tanto cinema moderno, emerge in tutto e per tutto il carattere, dunque il personaggio. Perciò il racconto drammatico si fa interiore, intimo.
Soprattutto i più giovani possono capire perfettamente quanto turba Miriam, tra tensione vitalistica e necessità di indossare un abito liso. C’è tanta volontà. Ma il senso d’impotenza è altrettanto. Dunque, nell’attesa che il passaggio alla vita adulta dia nuova linfa ai suoi desideri, Miriam non può fare altro che chiudersi in se stessa, come Ruben Stone in Sound Of Metal.