Quanto ha in comune un toro con il Natale? Esattamente quanto lega un abete ad un famosissimo racconto di Andersen ad esso dedicato giacché i suddetti animale ed albero sono i protagonisti dei rispettivi secondi termini di paragone. L’abete è infatti il titolo della ventinovesima fiaba di una raccolta integrale di testi pubblicata per la prima volta dall’autore danese nel 1844. Grazie alla citazione dell’artista Leyla Vahedi, di un articolo pubblicato sul sito dell’associazione culturale Cartastraccia, ho riletto di quel triste e beffardo inganno, a me noto, sin da bambina e per cui provavo tanta disperazione e senso di impotenza da averlo, negli anni, accantonato per proteggermi da una sofferenza personale che a Natale, complice una serie di intuibili ragioni, aumenta a dismisura. Invito pertanto i lettori, prima di proseguire, ad approfondire dal seguente link.
Nel recensire il film di animazione Ferdinand, il trait-d’union è apparso subito evidente, fino a farsi anello mancante, fortunatamente recuperato, per esprimere, con esattezza quanto volevo dire.
Se nel toccante racconto di Andersen, un abete giovane e ancor piccolo di statura desidera crescere ed invecchiare in poco tempo per esser meravigliosamente abbellito a Natale, piantato cioè in mezzo ad una stanza riscaldata e decorato con le cose più belle (mele dorate, tortine di miele, giocattoli e molte centinaia di candeline), anche nella storia di Ferdinand, i tori hanno nefasti desideri: diventare, in tutta fretta, grandi, grossi e feroci, possedere un magnifico paio di lunghe corna, come i loro padri per onorare la tradizione della guerra tra l’uomo e l’animale vincendo nell’arena, contro il primo, durante l’inebriante corrida. L’abete e i tori (inizialmente nemici di Ferdinand) ignorano, però la verità immutabile: l’albero privato della vita perché reciso alle radici, dopo un’unica notte di festa colmato di addobbi e candele accese che lo fanno tremare e qui e là prender fuoco, finisce rinchiuso in una buia e fredda soffitta e poi, una volta trascinato, con violenza, fuori da quella stanza, tagliato a pezzi e dato alle fiamme. Quanto ai tori, morendo ineluttabilmente per alimentare uno spettacolo orrendo, non possono narrare ai compagni le atrocità insensate che sono costretti a subire. Anzi, poiché gli animali non ritenuti idonei a combattere, sono caricati su un camion destinato al macello, è evidente che la mancata selezione costituisca un grave disonore. La conquista, a tutti i costi, di un’opportunità di combattimento in una sorta di graduatoria di possenza, ferocia e coraggio rappresenta l’unico obiettivo degli animali nella loro triste esistenza nati e cresciuti, come sono, in cattività. Non hanno alcuna consapevolezza del loro valore ontologico, né tanto meno di un’individualità: sanno di non avere alcuna importanza in quanto “animali”, ma soltanto perché ruote indispensabili a mandare avanti un vile ingranaggio concepito dagli uomini, apportatore di soldi, successo e fama. Alla violenza gratuita soltanto Ferdinand si oppone: la corrida lo ha privato, per sempre, dell’amato padre ( ottuso come tutti i “colleghi” e desideroso di far carriera quale glorioso assassino del toreador) e la vita condotta da cucciolo, protetto dalla dolcissima padroncina Nina, godendo dei profumi dei fiori è ben più soddisfacente e dignitosa di strazianti allenamenti finalizzati ad una morte certa.
Infine per rispondere alla domanda posta in incipit, sono convinta che l’uscita del film, in pieno periodo natalizio, sia una felice e proficua scelta anche e non solo di marketing, giacché il protagonista Ferdinand, dal grande cuore di giovane toro, colmo di bontà fino a sacrificarsi per i suoi compagni d’avventura, nel dare prova all’intera umanità di incarnare, anche in un’arena e con troppo rosso davanti agli occhi, l’Amore puro, si presta ad un accostamento diretto con il ben più famoso bambinello Gesù nato e poi crocifisso, secondo alcuni, per mondare i peccati del mondo.
Consiglio pertanto vivamente, ad adulti e bambini, la visione di Ferdinand sperando che il recarsi al cinema, pur essendo una delle azioni compiute al termine del 2017 non sia privo di valore, non sia inteso cioè come puro svago per precipitarsi nel 2018, dimenticando, troppo presto, quegli occhi, quelle narici, quella bocca e quelle corna.
Dato molto interessante nella genesi dell’ultima commedia diretta da Carlos Saldanha (pluripremiato regista di tanti film d’animazione tra cui, soltanto per citarne alcuni, l’indimenticabile Rio) è l’esistenza, a monte, come fonte di ispirazione, del libro, ormai diventato un best seller mondiale per grandi e piccini The Story of Ferdinand, scritto nel 1936 da Munro Leaf e illustrato da Robert Lawson (in occasione della prossima uscita di Ferdinand, nelle sale italiane, l’omonimo libro è stato tradotto da Beatrice Masini ed è distribuito dal mese di ottobre di quest’anno dalla casa editrice Fabbri Editori). Pare che l’autore non avesse alcuna intenzione di sensibilizzazione delle coscienze e lo spunto alla creazione di un fortunatissimo capolavoro coincidesse con la volontà di dare un’opportunità all’amico di dimostrarsi, agli occhi di futuri committenti, ottimo disegnatore. Fatto sta che Ferdinand fu vietato in Spagna sotto il regime franchista, Hitler lo bandì, ma caduto il regime nazista, il libro venne stampato e distribuito a tutti i bambini tedeschi come gesto simbolico dai Paesi Alleati. In poco tempo, divenne un classico per tutte le età ed un inno, non troppo velato, alla non violenza. Gandhi lo convocava tra i suoi testi preferiti e gli autori furono considerati, in numerose occasioni, in odore di Premio Nobel per la Pace.
Si può immaginare il mio legittimo stupore, quando, nel corso della conferenza stampa, chiedendo al regista Carlos Saldanha se ambisca a fare di Ferdinand un film politico, mi sia sentita rispondere, serenamente sorridendo, «No». Anzi egli ha raccontato di aver posto la stessa domanda alla famiglia di Munro Leaf ricevendo il medesimo diniego. Quest’ultimo voleva scrivere una buona storia da leggere e da percorrere per immagini, senza dispensare deliberatamente messaggi politici di pace e bontà. Saldanha ha deciso di seguire le orme del padre letterario di Ferdinand augurandosi comunque che, in questi tempi piuttosto bui, la storia possa esser fruita, con egual spirito disteso e serafico, anche alla Casa Bianca, dove dovrebbe risiedere una normale famiglia americana, anzi “la” famiglia d’America.
Ferdinand, per quanto mi riguarda, forse perché siamo appunto sotto Natale, dispensa tanti doni “politici”a cui aggiungo due regali a me destinati: fino ad ora non avevo mai recensito film d’animazione, pur fruendone spesso e, in secondo luogo, non avevo mai preso parte ad una proiezione per la stampa in cui i colleghi spettatori (e/o censori) erano scolaresche della fascia elementare. Ho potuto così saggiare l’ebbrezza di due prime volte ed apprendere in corpore vili cosa ne pensassero della pellicola i bambini notando che tra questi ultimi e gli altri addetti ai lavori (me inclusa) vi era un’ ovvia differenza di percezione emotiva e un diverso grado di interessamento ad alcune delle scene presentate.
Da queste inattese opportunità nasce la presente analisi: recensire un film per fanciulli, visto in loro presenza, mi consente di dividere la pellicola in due “binari” disposti parallelamente nella stessa direzione, che garantiscono un grandioso ed ottimo risultato.
Il primo binario è indirizzato agli adulti che sanno, ma non vogliono vedere, credono a quello che vedono e confondono l’apparire con l’essere; il secondo pertiene ai bambini che ignorano, per ragioni anagrafiche, eppure hanno l’ansia costante di scoprire. Ferdinand somiglia ad essi, mentre tutti gli altri miopi personaggi che entrano in contatto con la sua vita ora libera, ora reclusa, presumono un’alta conoscenza degli immutabili meccanismi del mondo e si nutrono di violenza, cattiveria, terrore reciproco. Rassegnazione vs stupore, odio contro amore, fiori profumati al posto dell’odore del sangue rappreso. Chi ha ragione? Da che parte potrebbe o dovremmo schierarci? Queste ultime domande, in tal caso, non sono pertinenti: un film di animazione si fonda su meccanismi in cui il mercato trova nei più piccoli giudici severi, onesti ed obiettivi. Auspico che quanto segue sia letto dai figli ai padri e non viceversa.
Ferdinand mostra audacemente fin dove è consentito al genere del film, l’orrenda vita e il nefasto destino dei tori impiegati ancora oggi nella barbarica pratica chiamata “corrida”(evito subito ogni coinvolgimento personale relativo alla mia ferma opposizione nel definire tale abominio uno spettacolo, che, purtroppo, per le autorità spagnole, molti altri governi europei-ad esempio quello francese a sud- e mondiali non sono considerate assurde carneficine, ma attrazioni tradizionali dall’alto valore culturale da finanziare e diffondere saecula saeculorum). Carlos Saldanha propone cioè, da un lato, un linguaggio di mostrazione del dolore con sequenze, tagli di montaggio ed inquadrature degne di un lungometraggio “canonico”, direi classico, come quelli interpretati da attori umani (nel film in questione “entriamo” grazie ad un’ape spinta dal vortice del gas di scarico di un furgone che fa il suo ingresso nella “Casa del Toro” vista dalla recinzione: l’inquadratura nell’aprirsi quasi su un campo lungo, somiglia a quella iniziale di Quarto Potere di Orson Wells). Dall’altro, un insieme non sempre organico, ma piacevole, di gag ed altri esilaranti incidenti interamente pensato per far divertire i bambini edulcorando, sanando e calmando i loro animi sensibilissimi. In termini più tecnici potremmo parlare di sinonimi attenuanti o perifrasi eufemistiche iconografici: il risultato è l’esibizione esilarante di personaggi e sottostorie fantasiose, infantili, scherzose. Non tratterò dunque dei tre porcospini, Un, Dos e Quattros (Tres è morto!) che aiuteranno, dal principio alla fine, il toro, aprendo saracinesche, mettendo in moto e guidando un furgone ecc…(Per loro prevedo infatti lo stesso futuro d’animazione che tanti altri comprimari hanno conosciuto singolarmente grazie a cartoni realizzati ah hoc: la coppia Timon e Pumbaa, il trio Sid, Manfred, Diego ecc…).
La storia di Ferdinand si svolge in Spagna esattamente a Madrid in tre luoghi diversi: la “Casa del toro”, azienda di allevamento di tori da corrida, la dimora di campagna della bambina Nina in cui il vitello viene accolto dopo la prima fuga e la città, magnificamente illustrata nel suo quotidiano vivere.
Sin da cucciolo, il protagonista ama annusare i fiori ed occuparsi della loro crescita: ogni mattina, con la bocca, riempie d’acqua un secchio per innaffiare una piccola e aulentissima rosa rossa . Ha un padre che ben presto caricato su di un camion per “esibirsi” in una corrida e vincere contro il torero, non fa più ritorno. È quest’ultimo terribile evento ad indurre il piccolo a partire in cerca del genitore, ma una serie di imprevisti lo fanno letteralmente precipitare in casa di Nina (anch’ella orfana di madre) il cui padre coltiva ( guarda un po’ la coincidenza!) fiori, che vende con successo.
Il meccanismo portante è scattato e non si può fermare: poiché il vitello Ferdinand ignorerà fino all’agnizione risolutiva qual è la reale sorte toccata al padre e ai suoi avi, sarà un personaggio in cerca, en quête, della verità e della libertà. Nel frattempo crescerà e formerà una propria coscienza come in un Bildungsroman. Inoltrandoci, però in un terreno imprescindibile, quale si configura la morfologia della fiaba, non possiamo non notare quanto il divieto al compimento di alcune azioni, noto come funzione proppiana dell’”allontanamento” ovviamente infranto per via di un irrazionale bisogno di rottura dei confini anche metaforici ed un’indomabile, nonché pericolosa curiosità, avvicinino, per buona parte del film, le avventure di Ferdinand, dalla hacienda all’arena, a quelle, nel bosco e in casa della nonna, di Cappuccetto Rosso e di tutti i personaggi che eludono le richieste dei grandi a non uscire di casa, ossia a non varcare la soglia di un luogo, per antonomasia, sicuro, protetto e sacro. Ferdinand non nasce dal caso, ma da un incidente con esito positivo e negativo al tempo stesso da lui provocato superando le sue “colonne d’Ercole”.
Questo è il motore reale del film mascherato da alcuni episodi salienti della storia Ferdinand che ogni anno, in un corpo da vitello, ha accompagnato Nina e il padre al Festival dei Fiori. Una volta cresciuto e divenuto “impresentabile” perché grosso e dall’aspetto pericoloso di toro, è costretto a rimanere in casa in attesa che i suoi genitori adottivi facciano ritorno. Infantilmente, però non riesce a star nella pelle e decide di avventurarsi in città temendo che Nina possa soffrire di noia in sua assenza. Dopo esservi giunto, a causa di una banale puntura d’ape (ancora un’ape), comincia a sbraitare seminando il panico nella folla in festa, fin quando, pur avendo salvato un neonato nella culla teneramente divertito dal suo dolce sguardo, un forte dispiegamento di uomini e mezzi ne coordina la cattura e lo (ri)conduce alla “Casa del toro”. Di generazione in generazione, la fatale eredità di Ferdinand rende la sua vita una trama da romanzo naturalista tanto caro a Zola. Tra gli ospiti del “carcere”, incontra gli altri amici d’infanzia, ex cuccioli, ormai diventati tori feroci sempre desiderosi di fare a botte e di dimostrare quanto sappiano combattere bene. Nel corso del viaggio all’inferno, gli fa da Virgilio Lupe, una puzzolente capra”calmante”, ambiziosa coach dei suoi allenamenti per sbaragliare la concorrenza dei tori e farsi, suo malgrado, scegliere per il duello contro il prossimo toreador. Ferdinand, di fronte a tale quadro di morte e assurda crudeltà, per quanto appaia impossibile, sogna soltanto la fuga e, dopo aver rivelato ai suoi compagni la realtà delle corride (ha visto le cinquantatré spade che hanno ucciso nell’arena altrettanti tori le cui corna sono appese come trofei di guerra su una macabra parete di una delle stanze della hacienda) tenta l’impresa. Rocamboleschi inseguimenti in autostrada, degni di un film d’azione e poi, al centro di Madrid, fino alla stazione della città, fanno da corredo alla libertà ritrovata dai poveri animali emarginati dal mondo che mai l’hanno assaporata, convinti della sua inesistenza. Stipati su un carretto agganciato miracolosamente ad un treno in partenza sul binario 8, la vittoria giunge per tutti tranne che per Ferdinand: fino all’ultimo ha corso stremato per spingere i suoi compagni, ma massacrato dalla stanchezza, ha ceduto ed è stato nuovamente catturato.
Scelto da tempo per cingere d’allori la carriera volgente al termine del toreador El Primero, star internazionale delle corride, non può e non vuole più sottrarsi, in quanto prescelto, eletto, all’appuntamento o, per meglio dire, al sacrificio. Libertà, libertà, libertà, per tutti i diversi! Oh, quanto la invocano gli occhi di Ferdinand! Se soltanto il torero e gli altri umani fossero capaci di ascoltarlo, udirebbero questi versi…Et par le pouvoir d’un mot je recommence ma vie je suis né pour te connaître pour te nommer Liberté…È per quel nome che, in fondo, Ferdinand si trova lì dove gli eventi, le sue decisioni e quelle altrui lo hanno portato. Tutto, ovviamente, può (e deve) rovesciarsi a vantaggio dell’animale, e, infatti, grazie alla dichiarata posizione di non violenza e alla forza datagli in extremis, mentre è costretto a combattere dal profumo di una rosa lanciata dagli spalti per celebrare El Primero, il toro, privandolo quest’ultimo delle armi, lo risparmia. Colpo di scena, volto a prolungare, raddoppiandolo, il finale positivo, nell’arena, a tradimento, El Primero rientra con una spada per infilzare e uccidere l’unico toro al mondo che ha vinto una corrida, disonorandone tra l’altro, la carriera. La folla in delirio per il “nuovo” spettacolo a cui si sta assistendo, schierandolsi dalla parte di Ferdinand chiede, a gran voce, che la bestia così buona e gentile sia risparmiata. Ferdinand è libero e può riprendere il proprio posto a casa di Nina che “adotterà” tutti gli altri tori e la capra Lupe tornati indietro per non abbandonare il loro unico amico e salvatore.
Sulle battute di Ferdinand è stato compiuto un lavoro molto accurato: il suo linguaggio è semplice, diretto, spontaneo, lampante, di facile comprensione e si ammanta di lucidi proclami dal tono pacifico dunque rivoluzionario: è un eroe della non violenza («Io sono contrario alla violenza») convinto di poter diventare un campione anche senza combattere. Le teorie sulla vita e su come proceda il mondo sono invece espresse a turno dagli altri animali («Quando si è teneri si fa una brutta fine»).
…E le farfalle, i fiori, la collina dalla cui sommità affacciandosi, Ferdinand, come un novello Leopardi, ammira beato, l’Infinito, la Luna che nelle tristi notti alla hacienda lo protegge come una carezza nel buio del dolore? Esiste un’altra vita, fuori dalla “caverna”…Ferdinand, che di questo ne è sicuro, fino a dare la vita, è lo schiavo che, senza esser ucciso, riesce a sottrarsi ad un gioco di sangue: per lui è normale quanto appare strano agli altri e niente è impossibile nemmeno il volo di una gallina.
Gli altri coprotagonisti, sia tori, sia uomini la pensano esattamente al contrario: i primi non hanno mai riso o sorriso in vita loro, non conoscono il concetto di felicità, anzi non hanno mai provato emozioni procedendo giorno dopo giorno a “lavorare” per un’ingrata coltre di schiavisti e sostengono che quando si cresce o si diventa “da combattimento” o “da ciccia”; i secondi, incastrati nel giogo del vile denaro o della fama perenne, vedono in chi è “diverso” perché enorme e nero “un brutto mostro” da temere, da cui scappare o da uccidere senza pietà.
Egregio il lavoro di computergrafica che oltre ad offrire pregevolissimi e raffinati particolari “parlanti” come la targa dell’auto di El Primero la cui megalomane sigla è “000OLÉ” o i segni delle cicatrici sulla pelle dei tori della hacienda, (uno a forma di “z” richiama il marchio dell’eroico giustiziere mascherato ed abile spadaccino Zorro), illustra il luogo, inteso geograficamante e come couleur locale, in cui la vicenda si svolge e la società che lo abita, a partire dai tratti somatici tipicamente spagnoli dei personaggi umani coinvolti. Anche in Rio i volti dei trafficanti di pappagalli erano perfettamente aderenti alla fisionomia brasiliana. Convocherei a tal proposito, la teoria russa e soprattutto ejzenstejniana di “Typaz” ossia l’impiego di attori quasi sempre non professionisti (come poi farà Pasolini) per rendere meglio sul grande schermo tipi “naturalmente espressivi” e per ridurre il divario tra il cinema, la finzione e la realtà.
Sulla stessa onda, quasi al termine del film, uno dei tori sogna ad occhi aperti di vincere la corrida ed esser celebrato dal pubblico, come un divo: quanto immagina, proietta nella sua mente, erroneamente definito in conferenza stampa un flash back, è reso tecnicamente con un’inquadratura retrò, da stampa d’antan. Come ha spiegato Carlos Saldanha: «È stata una sfida, il look, l’aspetto da dare al film. (Ferdinand n.d.r.). Il film Rio è tutto concentrato sui colori , colori primari, forti che hanno un impatto forte sull’occhio mentre con questo film volevo dare la rappresentazione di colore che potesse toccare il cuore. Oltretutto volevo rappresentare la tavolozza di tipica del Paese. Per Rio è il Brasile, un Paese tropicale, con colori molto forti, molto accesi. Per la Spagna invece una tavolozza dei colori della terra: gli arancioni, i rossi, i gialli in contrasto con altri tipi di rosso , i verdi…Volevo che i colori rendessero l’idea del Paese in cui il film è ambientato e della sua cultura esattamente come una tela, un dipinto classico. Nella sequenza in cui il toro sogna vedendosi nell’arena, siccome i vecchi poster delle corride erano disegnato a mano e dipinti, abbiamo sviluppato una tecnologia specifica per render ciò realizzando un’animazione ovviamente in 3d, ma in rendering abbiamo seguito l’idea per cui pur essendo in 3d l’immagine doveva somigliare a un qualche cosa di dipinto per dare lo spessore della cultura spagnola e della Spagna »
Infine la colonna sonora che regala scatenati momenti dance dal titolo Watch Me cantata da Nick Jonas è un duplice ulteriore invito a “vedere” il film ed il cuore d’oro che batte d’amore sotto la lucida pelle nera di toro.