Il pretesto è una rapina in banca che, purtroppo per i ladri, non ha il lieto fine. Da qui comincia una storia nella storia, fatta di angoscia, di riscatto sociale, attraverso vie e scelte sbagliate. Good Time, il film di Ben Safdie e Joshua Safdie, con Robert Pattinson e Ben Safdie, è vincolato da tale filo conduttore.
In questo, nel tentativo di redenzione attraverso strade parallele, Robert Pattinson dimostra di non essere solo “il belloccio” a cui si chiede anche di recitare. Poliedrico e maturo, dismessi i panni da vampiro nella saga Twilight che gli ha consegnato notorietà e gloria, Pattinson sfoggia consapevolezza anche in ruoli drammatici. Veritiero con il personaggio che interpreta, Constantine “Connie” Nikas , riesce a canalizzare lo sconforto di chi tenta di avere una vita migliore, infrangendo le regole, tramite l’illecito. Al contempo sa che nel suo comportamento si annida l’errore che limita la libertà di chi gli sta accanto.
Alla scena iniziale della rapina, dai toni quasi surreali, per via dei due fratelli/banditi che entrano in banca con una maschera che scimmiotta le caratteristiche umane, si contrappone quella dell’ospedale. La scena enfatizza il tentativo da parte di Connie di fare uscire Nick (Ben Safdie) che è ricoverato e vigilato, dopo una colluttazione in carcere. Dai modi quasi fiabeschi della parte introduttiva della pellicola, si passa al vero senso del film, capace di alimentare nello spettatore un costante sentimento di angoscia. Attori e regia sono la parte “buona” del film, poichè compensano dei limiti oggettivi, scaturiti da un budget risicato, che non permette di sfoggiare scene dal forte impatto visivo. Per sopperire a tale mancanza, si è deciso di puntare tutto sulla creazione di equivoci, tipici del gioco delle parti. In un lungometraggio che fa del crime il suo genere di riferimento, forse gli equivoci dovrebbero però essere più marginali. In realtà, di fatto, Good Time non si rifà al genere crime. Con il trascorrere dei minuti, lo spettatore è dinanzi al dramma esistenziale, vissuto quotidianamente come un fardello dal quale emergere.
Gli sbagli di Connie, i suoi incidenti di percorso, aprono la strada a qualcosa di diverso dalla classica vicenda a tinte noir: si creano i presupposti per i risvolti psicologici di personaggi ai margini della società. In questo, Good Time ha dei notevoli punti di forza, che compensano omissioni strutturali. Lo spaccato antropologico, che fotografa l’umana follia alla ricerca di qualcosa di superiore alle proprie possibilità, rende interessante il destino dei personaggi. Al cast dei protagonisti si aggiunge Jennifer Jason Leigh, la quale testimonia l’attività di ricerca da parte della produzione di trovare la giusta collocazione per i ruoli estremi. Il risultato, da questo punto di vista, conferma le aspettative: l’amalgama tra gli attori è tangibile e riuscito.
Con Good Time, i registi riescono nel loro intento di puntare i riflettori sugli emarginati, i quali nascondono le proprie miserie attraverso aspirazioni irrealizzabili. La trama riesce a indagare su tematiche difficili, in cui la tragedia è nascosta dietro l’angolo, che aspetta solo di insidiarsi laddove l’errore umano cambia le sorti del destino.