Vincent Van Gogh, oggi, è considerato il padre dell’arte moderna. Come tutti i grandi artisti, però, durante la sua vita è stato bistrattato, sottovalutato ed etichettato come outsider. Colpevole di essere diverso rispetto a chiunque altro, Vincent veniva deriso dai suoi contemporanei che avevano studiato in scuole prestigiose o seguito le orme di artisti affermati. Lui, invece, non ne aveva avuto bisogno. La vita era stata la sua unica maestra, fonte di gioie, poche, e dolori che lo avevano segnato nel profondo, portandolo a sviluppare una sensibilità fragile e vorace al tempo stesso. Il suo costante malessere, mascherato con un freddo distacco dalla realtà esteriore, in realtà, si riversava nelle tele: le pennellate virulente e pastose e i colori accesi, congiunti senza il minimo contrasto, rivelavano, infatti, tutte le contraddizioni di un’esistenza funambolica vissuta ai margini della società, all’angolo, in ombra. Rinchiuso in un manicomio e poi affidato alle cure di uno dei più validi dottori dell’epoca, appena sei settimane prima della sua morte, Vincent scrisse al fratello di aver finalmente trovato la pace. Improvvisamente, un pomeriggio come tanti altri, tornò nella pensione in cui risiedeva con un proiettile nello stomaco e poche ore di vita. Al suo capezzale accorsero i suoi amici più cari e suo fratello Theo, a cui aveva scritto più lettere di un’intera cittadina.
Davanti alla profondità dei suoi sentimenti, Dorota Kobiela e Hugh Welchman decidono di realizzare Loving Vincent per svelare il motivo del – presunto – suicidio dell’artista bohemien. Come in un detective movie che si rispetti, il protagonista Armand Roulin, su richiesta del padre, si reca a Parigi per consegnare a Theo Van Gogh, l’ultima lettera del fratello. Nella cittadina francese scopre però che l’uomo è morto a poca distanza dall’artista ed è quindi costretto ad andare a Auvers-sur-Oise dove si trova il suo psicologo. Contro ogni aspettativa, Armand si appassiona alla storia del pittore definito pazzo per essersi tagliato un orecchio dopo una lite con l’amico Paul Gauguin e i cui conflitti interiori cozzano prepotentemente con la realtà dei fatti. Torna quindi sulla scena del crimine, intervista le persone a lui più vicine, analizza le prove e cerca di smascherare i colpevoli ripercorrendo gli ultimi passi di Vincent Van Gogh.
Attori del calibro di Saoirse Ronan (Espiazione) e Douglas Booth (Jupiter: il destino dell’universo) prestano volti e movenze ai personaggi della storia e, poi, finiscono su tela per opera di un gruppo di oltre certo artisti che riproducono la vicenda utilizzando le stesse tecniche pittoriche dell’artista. Un lavoro durato sei anni, studiato nei minimi particolari e realizzato con un sentimento genuino che si percepisce in ogni fotogramma. Loving Vincent è, quindi, un prodotto unico nel suo genere, maestoso e incantevole come un cielo stellato in una calda notte d’estate. E in questa prospettiva, persino la morte dell’uomo assume una connotazione trionfale e viene incorniciata da una luce dorata che avvolge e corona un’esistenza unica e inimitabile.