Due ore scorrevolissime e piene di verve, quelle del nuovo film di Martin McDonagh dal lungo titolo Three billboards outside Ebbing, Missouri, presentato ieri in concorso alla 74esima Mostra Cinematografica di Venezia, le quali intrattengono piacevolmente lo spettatore che si diverte e non si annoia mai, stando comunque a stretto e continuo contatto con le brutture, le piccolezze e le contraddizioni dell’essere umano. Non vi è mai una caduta di ritmo, momenti morti o parti meno interessanti nel flusso di umorismo e azione composto di continue battute che si susseguono l’un l’altra, di cui il cast d’eccezione del quale McDonagh si avvale, si fa portatore in modo estremamente efficace.
Frances McDormand, probabilmente nella sua migliore interpretazione, per la quale già si comincia meritatamente a vociferare di Oscar, un grandissimo Woody Harrelson e un Sam Rockwell sempre perfettamente a suo agio nel ruolo dell’instabile bastardo contribuiscono alla riuscita di un ottimo lavoro di squadra in quella che è decisamente una delle pellicole più accattivanti e degne di nota di questo concorso.
A partire da un’idea sviluppata dal ricordo reale di una rivendicazione scritta su alcuni manifesti di grosse dimensioni affissi lungo una strada e osservati da un autobus circa 20 anni fa, McDonagh imbastisce la trama di un racconto collocabile tra thriller e commedia che fa da sfondo alla considerazione, in chiave umoristica e sarcastica, di temi esistenziali come il perdono, la violenza, l’empatia e la fiducia verso il genere umano. Dopo il bellissimo e acclamato In bruges (2008) e il più recente 7 psicopatici, Martin McDonagh crea un’opera che diventa viatico di una serie di critiche sferzanti e di derisioni verso tutto ciò che determina il potere nell’essere umano, prevaricazione, razzismo, sessismo, inadeguatezza di istituzioni come la polizia, la chiesa, la famiglia, che dovrebbero costituire un esempio di umanità e giustizia, e invece sono ovviamente imperfette e fallibili come qualsiasi singolo, in poche parole estremamente umane. Virtù principale di questa visione di un’umanità così manchevole e inadeguata che l’autore comunica, è che in realtà non ha una connotazione del tutto negativa, anzi, è particolarmente affettiva.
In realtà, nonostante lo canzoni, se ne prenda gioco, in alcuni momenti lo disprezzi, McDonagh vuole bene al “suo” piccolo e difettoso genere umano. Non lo vede una causa persa e senza speranza, al contrario, come conferma lo stesso regista in conferenza stampa, ma che è palese anche nella visione del film, trasmette un messaggio molto fiducioso che comunica la necessità e il dovere di empatizzare con qualsiasi individuo, alludendo al fatto che, di qualsiasi cattiveria o atto abnorme sia capace, ogni persona, in realtà, sia un essere dotato di un’anima, che vi si possa trovare qualcosa di buono e che l’unica possibilità di cambiare in qualche modo un mondo pieno di odio, nel quale tutti si è separati da incolmabili distanze, sia scovare quel buono e non rinunciare mai a credere che sta lì da qualche parte. In particolare, si fa portavoce di questo messaggio il bellissimo personaggio interpretato da Woody Harrelson (Bill Willoughby), il suo modo di stare in famiglia, di fare giustizia, di gestire i conflitti.
Insomma, un film che si potrebbe per tanti aspetti assimilare allo stile dei fratelli Coen, ma con una vena più calda e affettiva, un sarcasmo e una causticità accompagnati da un po’ più di speranza, che possiamo individuare nei fiori rossi che Mildred (Francis McDormand) pianta sotto i suoi manifesti, nelle bellissime lettere di Bill (Woody Harrelson), forse l’elemento singolo di maggiore valore assoluto, nelle espressioni facciali che fanno capolino rivelando la sua emotività; sul viso di una Mildred apparentemente imperturbabile, amareggiata e beffarda, nella bellissima scena che racchiude da sola tutto il senso del film, in cui è in compagnia di un capriolo, la cui bellezza sta proprio nel contrasto tra il desiderio e la speranza di comunicare con una forma di reincarnazione della figlia e la necessità di distaccarsi da quel bisogno, sbeffeggiandolo ma senza rinunciare a ringraziarlo.
Altro elemento veramente consistente che dà un contributo essenziale a rendere fluido e a riscaldare un contesto ricco di violenza e disincanto è la bellissima colonna sonora curata da Carter Burwell, che accompagna felicemente tutta la durata della pellicola conferendole spessore e pienezza.
Così, ci si attende e si spera nel giusto riconoscimento, sia alla Mostra che successivamente, per un lavoro di grande pregio che non si esagererebbe a dire possa candidarsi quest’anno al Leone d’Oro e di sicuro a una delle coppe Volpi, almeno per l’eccellente Frances McDormand.