Torna a Venezia Tsai Ming Liang, con Jia Zai Lanre Si (The Deserted), presentato nella sezione speciale VVR (Venice Virtual Reality), portando con sè questa volta il suo attore feticcio Lee Kang Sheng, ormai divenuto importante per le sue opere probabilmente quanto lui. Come è noto a chi lo conosce bene e come abbiamo visto in Afternoon (2015), ultima occasione in cui il regista taiwanese aveva presentato un suo lavoro alla Mostra Cinematografica di Venezia, i due hanno un legame profondissimo e indissolubile che li unisce sia dal punto di vista professionale che affettivo e che li ha portati addirittura a convivere da tempo in una casa diroccata all’interno della quale si svolgeva un loro lungo dialogo che componeva interamente il film, un luogo estremamente simile a quello nel quale è ambientata questa nuova opera. Il loro rapporto è talmente stretto e intenso da far sì che si arrivi a percepire i due uomini come due componenti di un unico intero, due alter-ego l’uno dell’altro.
E insieme, coadiuvati dalla nuova tecnologia che si presta particolarmente ai loro intenti, ci immergono in quel mondo che è familiare e sempre incredibilmente evocativo e coinvolgente per chi ha confidenza con i loro lavori, ma che è estremamente suggestivo anche per chi si avvicini alla loro poetica. I luoghi, i rumori, i colori, le immagini sono sempre stati per Tsai Ming Liang un mezzo di comunicazione potentissimo che supera di gran lunga la narrazione e le parole. Quelli che sono tratti caratteristici del regista, che stanno divenendo sempre più preponderanti nei suoi ultimi sforzi: la dilatazione dei tempi, l’impatto prevalentemente visivo, l’uso di elementi che da soli possano trasmettere allo spettatore potenzialmente il significato che egli voleva dargli. Ma soprattutto qualsiasi cosa possa indurre nell’anima e nella mente di chi li guarda di potersi guardare intorno come se si fosse proprio lì, assorbendone e facendo propri i rumori, l’atmosfera, lo spirito, acquistano in un’operazione come quella di The deserted, un valore assoluto ancora maggiore.
Tsai Ming Liang ha trovato il modo di accedere allo spettatore attraverso elementi simbolici e astratti, puramente immediati, che innescano movimenti emotivi e cognitivi istintivi a prescindere dai contenuti – un accesso che parole e narrazione spesso frenano – in quanto il loro essere espliciti li rende vittime delle difese e delle sovrastrutture che impediscono di accoglierli come propri, imbrigliandoli in spazi limitati e non percepibili perché difesi dall’ergersi di muri fisiologici quanto riduttivi. Un linguaggio più indefinito, non inquadrabile in un unico alfabeto, permettendo alla mente e al cuore un processo di astrazione, lascia molto più spazio al fluire emotivo e di coscienza, consentendo ampio respiro a quel qualcosa di cui spesso non si è consapevoli e che un codice univoco non sarebbe in grado di evocare.
In Deserto Rosso di Michelangelo Antonioni, non a caso uno dei maestri cui Tsai Ming Liang non ha mai fatto segreto di ispirarsi, proiettato anch’esso per fortunata coincidenza nella sezione Classici della Mostra soltanto due giorni fa, emergono, come unici canali di accesso al sentire della protagonista, elementi assoluti e non riconducibili a definizioni uniche, come per esempio il mare (una delle poche cose che suscita delle sensazioni intense nella splendida Monica Vitti), capaci di evocare percezioni sensoriali che determinino quell’accesso in modo astratto, senza dover passare per parole o spiegazioni.
Allo stesso modo Tsai Ming Liang è in grado di evocare l’interiorità dello spettatore, di far fluire la sua coscienza attraverso un blu particolarmente intenso o le tonalità di un verde rigoglioso e brillante – quest’ultimo sembra essere più appartenente alla direzione che Ming Liang sta prendendo negli ultimi anni, mentre il blu è stato il colore più presente in quasi tutta la sua filmografia -, attraverso le crepe di un muro, una risata, un abbraccio, il cucinare un pasto quotidiano, la sofferenza continua di un muscolo; egli riesce a fare breccia dove spesso contenuti molto più espliciti e magari drammatici non riescono, aprendo a un mondo interiore sconosciuto e illimitato.
Tanti i rimandi al suo precedente cinema, che possono seguire gli stessi principi evocativi appena descritti o indurne di nuovi, primo tra tutti l’acqua, elemento da sempre importantissimo nella poetica del cineasta taiwanese: la ricordiamo fin dall’allagamento dell’appartamento in The hole, in I want to sleep alone, negli acquari di Che ora è laggiù, nella pioggia di Stray dogs; un fluire che il regista ha affermato avere per lui tanti significati, asserendo che quanta più acqua è presente nei suoi film, tanto più profondi sono i vuoti che i suoi personaggi devono colmare, come se l’idratazione corrispondesse al nutrire affettivamente l’essenza di una persona, o ancora l’ha definito essere metafora della necessità di far scorrere e incanalare qualcosa che non si è in grado di esprimere o manifestare nemmeno a sé stessi. E lo vediamo, anche qui, il solito infinitamente espressivo Lee Kang Sheng, sempre in preda ai suoi fantasmi, sia identificabili, come la madre, sia simbolici, come un pesce perlato o una donna bianca, esile ed eterea, ma comunque rappresentanti tormenti e istinti che contemporaneamente lo affliggono e lo accendono, continuamente a contatto con l’acqua, il the, la borsa dell’acqua calda, la pioggia, sempre più intensa, incessante, fitta, fino a culminare nelle due meravigliose scene che esprimono in tutta la sua intensità quell’enorme potere del regista di unire erotismo, affetto, bisogno e dolore in un solo potentissimo nucleo pulsante.
Ancora, riconosciamo nell’opera elementi cari all’autore, che suonano più come ritrovamenti di se stesso che come autocitazioni, un condividere la propria essenza attraverso i suoi simboli, un donarsi in qualcosa che è divenuto un vero e proprio rapporto affettivo reciproco tra lui e lo spettatore, non un’autocelebrazione, ma un dirci “siamo ancora noi, voi e io, insieme”, e allora le crepe di Stray dogs, il materasso di I don’t want to sleep alone, il collo sofferente del Lee (Xiao Kang?) di The river, il cucinare de Il gusto dell’anguria, seppur questa volta da solo, del protagonista.
Ancora una volta Tsai Ming Liang ci offre un concentrato di bellezza e di rara capacità, complici le doti naturali e probabilmente assolutamente corrispondenti a tratti propri della persona reale di Lee Kang Sheng, di rappresentare la solitudine e il dolore avvolti e sintonici con altrettanto pregnanti delicatezza, passione e dolcezza. Tutti vissuti apparentemente non compatibili gli uni con gli altri o potenzialmente contrastanti che questi due uomini teneri quanto intensi riescono sempre a rendere coerenti in un unico flusso che non finirà mai di incantare.