La parola amore è presente in quest’ultimo film di Radu Mihăileanu, La storia dell’amore, appunto, e in quello precedente, La sorgente dell’amore del 2011. Perché lui i sentimenti li sa raccontare molto bene, sia quello di un uomo per la sua donna, sia quello delle donne per i loro uomini ne La Sorgente dell’amore, dove è riuscito a rendere anche quella sorellanza, e saggezza, e intimità, tutte mediorientali, che fanno pensare un po’ alle atmosfere di Nadine Labaki.
La storia dell’amore non vede la donna, Alma (Gemma Arterton), come protagonista, bensì come oggetto d’amore; anzi, lei è la donna più amata del mondo. Al centro della narrazione, un uomo, Leo (da giovane Mark Rendall, da anziano Jacobi Derek). Nell’incipit siamo in uno shtetl polacco prima della guerra e poi con i tedeschi alle porte, mentre si assiste ai baci e ai giochi amorosi, alle promesse, di Alma e Leo. Con una voce narrante che, insieme al passaggio dal bianco e nero al colore, legge le prime frasi del romanzo che Leo scrive per Alma. C’era una volta un ragazzo che amava una ragazza. Le promise che per il resto dei suoi giorni non avrebbe mai amato nessun’altra. È sopravvissuto a tutto per mantenere la promessa. Se non è amore questo!
Il villaggio è sempre dipinto come un quadro, vivido e reale, un sogno rivissuto dall’anziano Leo. Non ci sono i personaggi strambi, le musiche yiddish, i violini, le oche, i cibi e tutto quel fermento che il regista ci aveva illustrato in Train de vie (1998); bensì l’amicizia e l’amore condiviso tra Alma, Leo e i loro due amici. Alma civetta un poco, mettendoli in competizione, ma è di Leo che si innamorerà, perdutamente.
I destini verranno poi uniti e divisi dal libro La storia dell’amore, che nella realtà è un romanzo di Nicole Krauss (2005). Per la materia trattata e l’intreccio, un grande successo internazionale. Radu Mihăileanu rielabora storie già narrate in letteratura come Il concerto, ma non è detto che non ne sappia inventare di nuove, come per Vai e vivrai, un’altra struggente storia d’amore, in questo caso filiale. Che non sappia costruire di suo una vicenda, attraversando l’intera vita del protagonista, commuovendo il pubblico dall’inizio alla fine e creando legami indissolubili tra passato e presente.
In questo suo ultimo film le scene si alternano tra tempi e luoghi solo apparentemente lontani, dagli anni Trenta e Quaranta nell’Est europeo ed una New York attuale (siamo nel 2006), tra persone totalmente diverse, come il nostalgico Leo, ultimo ebreo residente a Chinatown, e l’adolescente Alma (Sophie Nélisse) che, non è un caso, porta il nome della sua amata.
E ancora una volta il regista ci lascia col fiato sospeso inserendo sapientemente una piccola storia privata nel disegno dissennato della storia collettiva, in cui i personaggi sono alla ricerca disperata di sé. Per la figura di Leo, dice di essersi ispirato al padre, il quale della Romania ha vissuto tutti gli orrori: dalla destra estrema, al nazismo, allo stalinismo, a Ceausescu, ma con una resilienza maturata nell’attaccamento alla vita e alla sua gente.
Ancora una volta, non rinuncia alla poesia di cui ogni scena è intrisa. E all’umorismo ebraico, che sappiamo riconoscere per come il cinema e la letteratura ce l’hanno rappresentato. A volte forse un po’ risaputo, ma che importa se ci fa sorridere lo stesso.
Ancora una volta, insomma, Radu Mihăileanu è riuscito a toglierci il respiro con quest’ultimo lavoro, che forse non è tra i suoi migliori per originalità, che forse è un po’ troppo affollato di temi, ma tutti attuali e coinvolgenti, come il disagio che la quindicenne Alma e il vecchio Leo condividono, pur non conoscendosi, in una metropoli e in un mondo occidentale in cui la guerra non è ancora finita. Entrambi sono alla ricerca dell’amore (lei di quello che verrà, lui di quello che è stato) come unica possibile compensazione, che aiuta a sopravvivere a tutto.
Da una dichiarazione del regista: Ho sempre fatto dei film militanti – Il Concerto, Train de vie – ma sono convinto che la crisi più grave e profonda che l’umanità sta attraversando sia l’incapacità di amare l’altro.