Nel libro di Robert H. Hopke dal titolo Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la vita, il fulcro intorno all’argomento “coincidenze”, le quali (prima o poi) cambiano l’esistenza, convoca quelli che Jung chiamava “eventi sincronistici”, spiegando la sincronicità come “contemporaneità di due eventi connessi quanto al significato, ma in maniera acasuale”.
Non avrei, personalmente, altra migliore definizione per descrivere il mio incontro con il libro di Beniamino Biondi L’arcipelago deserto. Il cinema sperimentale giapponese e la mia scelta di recensirlo.
Come donna, trentenne e con alle spalle un percorso culturale ed universitario profondamente europeo ed occidentale, mi sono trovata di fronte all’affiorare, direi involontario, di ricordi “giapponesi”, con grande stupore disseminati realmente in svariati momenti della mia vita tanto da concluderne che essi non sono capitati e poi riemersi per puro caso e non vanno classificati come prodotti di coincidenze.
La costanza della loro presenza ha definitivamente avvalorato la richiesta legittima di liberazione dalla tirannia inconscia di un pensiero fondato sul principio di causa ed effetto, facendo affluire, in ambito soprattutto cinematografico, relazioni giapponesi fondamentali per la mia formazione e il mio vissuto.
Non desirando tediare i lettori che si aspettano di consultare una recensione, con vicende personali e, consapevole di dover estendere lo spazio bianco all’ultima fatica di Biondi, citerò soltanto alcuni esempi dei miei souvenirs nipponici: la poesia in forma di haiku, Rashomon, il film diretto da Akira Kurosawa nel 1950, Sergej Michajlovič Ėjzenštejn studioso del teatro Kabuki e del Giappone per elaborare le sue teorie sul montaggio, Pier Paolo Pasolini come romanziere di un volumetto di ventisei pagine dal titolo Il Re dei Giapponesi, Hayao Miyazaki con tutti i suoi capolavori d’animazione e infine, si fa per dire, Cesare Zavattini.
Non rammento le parole esatte di quest’ultimo, ma in sintesi, elogiandolo, citava il Giappone o meglio le capacità fattive dei giapponesi in relazione, in generale, alla nascita di film futuri: le sceneggiature sarebbero sempre state a suo carico, quanto al resto (le nuove e rivoluzionarie tecnologie della Settima Arte) “ci penseranno i giapponesi”. Zavattini continuava così a dare voce all’immagine di un Oriente segreto che, senza escludere l’India e la Cina, eleggeva il Giappone come Paese estremamente capace soprattutto in fatto di realizzazione dell’impossibile.
Fin qui memorie ragionate, ignorando quanto siano o meno condivisibili. Poi fanno parte di me gli amati-odiati “luoghi comuni” così diffusi nelle esistenze di un individuo occidentale, tanto da consentire una tracciabilità in odore di scientificità e quindi matematizzazione degli “eventi sincronistici”: un “je ne sais quoi“ di giapponese ha pervaso sempre e ovunque l’aria che ho respirato sin da bambina come i vermigli petali dei fiori di ciliegio non da frutto (sakura), celebrati per essere ammirati tramite l’usanza dell’hanami. Questi fiori delicati ed effimeri rappresentano, per i Giapponesi, il simbolo della fragilità unitamente a quello della rinascita e della bellezza dell’esistenza. A seguire, nel mio mémoire, elenco, d’istinto: karate, judo, manga, kimono, sushi (prima di diventar vegana), anime ecc…
Il flusso di coscienza potrebbe proseguire senza posa e soddisfare appieno gli esercizi di immaginazione attiva di junghiana matrice.
Dove collocare ordunque il libro di Beniamino Biondi e il suo viaggio nell’arcipelago deserto, quale sembrerebbe essere il cinema sperimentale giapponese?
Direi di riservargli un posto d’onore, accanto alle mie più recenti esperienze giapponesi comprendenti, tra le altre, l’aptica immersione visiva nella graphic novel di Saverio Tenuta La leggenda delle nubi scarlatte, la visita ai giardini giapponesi presso l’Istituto Giapponese in Roma, compiuta, di questi tempi, un anno fa, Yoko Ono e Claire Tabouret. One day I broke a mirror, esposizione in corso presso l’Accademia di Francia a Roma e La grande onda. Viaggio in Giappone a breve in mostra, sempre nella Capitale nelle sale del Chiostro del Bramante: due avventure nipponiche per le quali fremono i miei occhi e le mie sinapsi.
Cento pagine e cinque capitoli, uniti dall’apparire subito, preziosi come, per antonomasia, devono essere i libri in formato tascabile: l’ultima fatica di Beniamino Biondi è una novità vera che colma una lacuna editoriale, non lasciando spazio a quanto (poco) già scritto, ma affrontando un settore della storia antropologica in cui i giapponesi, dentro e fuori dal loro Paese, si sono distinti con la consueta maestria dimostrata in tutto quello che fanno.
Di agile consultazione, il volume di Biondi non annoia e non distrae, mantenendo una continua discorsività del testo e una perpetua fluidità nella lettura: da elogiare, ad esempio, è la scelta (sua e dell’editore) di tradurre in italiano tutte le citazioni in lingua straniera, inserendo poi, a piè di pagina, i titoli originali e il corretto riferimento bibliografico.
Si tratta infatti di un manuale di piacevole lettura diviso per autori con spunti per ulteriori approfondimenti molto interessanti, ricalcando fedelmente quanto in prospettiva è indicato dal titolo: un arcipelago si compone di numerose isole; ognuna però è un unicum importante sia singolarmente che in un contesto collettivo.
Il linguaggio, in equilibrio tra la semplicità della sintassi e l’inserimento, dove richiesto, di una scrittura più tecnica, contribuisce ad un ritmo piano e regolare: l’autore si palesa come guida, ma non sovrasta mai lo spazio di fruizione del lettore con eccessi di passione per una pellicola o un regista.
Tutto è sempre perfettamente calibrato e nella descrizione della vita privata di alcuni cineasti, lungi dalla suggestione di servire gossip da quattro soldi, Beniamino Biondi propone episodi o eventi finalizzati soltanto a trattare di cinema giapponese.
Per tale ragione, Yoko Ono, ad esempio, unica cineasta donna citata nel libro insieme a Chieko Shiomi, finalmente, smette i panni della moglie di John Lennon per (ri)prendere quelli di artista autonoma e di filmmaker sperimentale.
Il viaggio alla scoperta dell’arcipelago comincia dal cineasta considerato universalmente il padre del cinema sperimentale giapponese ovvero Takahiko Imura e si conclude con il capitolo dedicato ad un occidentale in Giappone: Donald Richie, regista importantissimo proprio per aver insistito sulla conoscenza ad Ovest del cinema nipponico e che ha davvero compiuto il viaggio nelle isole –set del libro di Biondi.
L’impianto di presentazione di ogni regista, nel volume, si ripete e si basa su diversi tipi di contributi: fonti dirette quali interviste, articoli, lettere in modo da entrare, per quel che è possibile, nel loro pensiero filmico. Poi, ovviamente, per ricucire quello che apparirebbe come una serie di contributi monca e fine a sé stessa si forniscono, come accennato sopra, adeguate informazioni biografiche. Infine si analizza la filmografia dei registi in maniera veloce e agile con la costante consapevolezza che si tratta di un libro sul cinema giapponese e non di monografie su singoli autori legati alla Decima Musa.
Un’arte che non ha conosciuto un percorso regolare se, come indicato nel testo, si pensa che in Giappone vi è stato un vero e proprio vuoto tra la fine degli anni Venti, quando esce un film “assurdo e singolare” dal titolo Kurutta ippêji di Teinosuke Kinugasa (1926) e l’inizio dei Sessanta in cui è possibile parlare di Nouvelle Vague nipponica e di cineasti d’avanguardia.
Sostiene Beniamino Biondi a p. 36 del suo libro «[…]oltrepassano la logica diegetica per giungere a una concezione strutturale del cinema come sistema di relazioni semantiche, testando il libero uso dei materiali e assumendo l’alea introtelica della monumentalizzazione formalistica in termini di contenuto sociale negato e di disposizione puramente iconica del materiale espressivo».
Nel libro diventa quindi fondamentale il trattare tematiche relative alla grammatica e alla sintassi del linguaggio filmico, perché pur esistendo, di base, storie, idee e pensieri da “raccontare” con la macchina da presa, le scelte dei registi privilegiano un codice sperimentale, spesso operando interventi diretti e manipolazioni sulla pellicola, esperimenti, tecniche di alterazione del movimento, della percezione iconici. I discorsi politici, sociologici, antropologici emergono fortemente: vuoi per gli anni in cui vivono e provano a lavorare i registi in questione, vuoi per la storia del loro Paese che, per costrizione o scelta, vivono fuori dai suoi confini (soprattutto in America).
Grazie alle ricostruzioni attente e puntuali che Beniamino Biondi fa a proposito dei film citati nel suo libro, è sorprendente apprendere come la maggior parte di essi abbia avuto una vita “occidentale” in special modo europea, partecipando a numerosi festival (Berlino, Cannes, Locarno, Venezia, Barcellona ecc…), vedendosi premiati con menzioni speciali ed altri alti riconoscimenti.
Molti cineasti giapponesi sono diventati tali dopo un passato da architetti, scrittori, avvertendo l’urgenza di trovare nuove forme di espressione, altri modi di catturare e riproporre le immagini indipendentemente da un plot: pensiamo, per esempio, al documentarista Katsu Kanai Katsu Kanai, definito “l’imperatore del cinema underground” e il “maestro del surrealismo”, autore tra i più bizzarri ed affascinanti del cinema sperimentale, oggetto appunto del volume di Biondi.
Oppure vi sono registi che hanno collaborato con altri professionisti di settori in apparenza estranei, ma ugualmente complementari al mondo del cinema: mi riferisco a Imura che, nel 1989, filma Ma: space/time in the garden of Ryoan-Ji su un testo dell’architetto Arata Isozaki, affrontando il concetto nipponico del ma in cui lo spettatore si trova coinvolto per forza perché posto dinnanzi al tempo e allo spazio come elementi di una sola dimensione.
Colpita positivamente dal connubio, raro per un libro a tema, di capacità di sintesi, precisione del linguaggio e sua semplicità, ho deciso di convocare direttamente Beniamino Biondi perché lo ritengo meritevole di intervento in una recensione il cui protagonista non è soltanto il suo libro come prodotto editoriale e culturale, ma anche egli stesso come suo autore, cioè creatore dell’idea originale come contenuto e forma.
Ho optato per la modalità più consueta di coinvolgimento autorale attraverso una serie di quesiti a cui molto gentilmente Biondi ha risposto.
Alla domanda relativa a quando è arrivato il Giappone, filmicamente parlando, nella sua vita, egli ha nominato i film di Kōhei Oguri, seguiti poi da quelli di Yasuzo Masumura (a cui, tra l’altro, ha dedicato una monografia) e dalle opere del cinema di Pinku Eiga. Senza escludere la nouvelle vague nipponica, Biondi preferisce cineasti come Susumu Hani e Yoshishige Yoshida.
Ho chiesto allora perché focalizzare l’attenzione di un libro su un cinema già poco noto di per sé, proprio sul versante sperimentale. Biondi, concordando sulla non conoscenza dell’argomento da parte del pubblico occidentale, ha dichiarato di aver scritto L’arcipelago per esplorare l’universo di un cinema che in Giappone ha dato alcuni dei risultati più significativi e in termini di assunti concettuali e in termini di ricerca linguistica.
Tra i registi che Biondi stima figurano infatti Motoharu Jōnouchi, Yoji Kuri, Katsu Kanai, Kazuo Hara, e Donald Richie, per quanto egli debba aggiungere obbligatoriamente Toshio Matsumoto e Shūji Terayama, oggetto, nel suo libro, proprio di due capitoli specifici.
In merito ai film, non potendo citarli tutti, in considerazione delle numerose tensioni artistiche e culturali, “vince” Il funerale delle rose di Matsumoto.
Non ho potuto dunque esimermi dal chiedergli se esista o meno uno specimen del cinema ne L’Arcipelago . La risposta non poteva esser univoca: per certi aspetti, Takahiko Iimura, per altri Terayama, per altri ancora Obayashi. Ognuno di loro ha presieduto un certo discorso poi assunto dai cineasti successivi.
Ecco perché dovremmo tutti leggere il libro di Biondi, per comprendere che, anche in un arcipelago, il cinema è molto più ed altro dall’idea generica e convenzionale data in pasto al pubblico medio: Biondi sostiene che tutti i registi giapponesi sperimentali hanno posto delle basi per i cineasti venturi, discorso, nella sua verità incontrovertibile, ma difficilmente testimoniabile, nell’attuale panorama italiano, dove tutti “fanno film” alla velocità del vento in assenza di idee, di forme, di linguaggio, di pensieri, di ricordi, di memoria.
Biondi afferma, a mio giudizio, giustamente, che il cinema italiano dovrebbe mutuare da quello nipponico la capacità di equilibrio straordinaria fra la geometrica astrazione delle immagini e la violenza dei contenuti espressivi.
Tuttavia i registi e gli spettatori nostrani come, nella maggior parte del resto del mondo, ignorano le principali figure di pratica artistica del cinema sperimentale giapponese, sia perché pochi sono i cineasti ancora viventi e in attività, sia perché quasi nessuno dei professionisti citati nel libro scritto da Beniamino Biondi è inserito nelle storie del cinema mondiale, fatti salvi i casi di Terayama e Matsumoto, ma anche lì in modo vago, accennato e in fondo marginale.
Personalmente ho voluto verificare quanto sopra sfogliando alcuni manuali di storia del cinema e dei film di recente pubblicazione: al massimo, compaiono, condensati in due paginette, soltanto i nomi di Ōshima, Imamura e Teshigahara.
Ecco spiegato il pregio del libro di Biondi con cui ho aperto questa mia analisi: esso è un viatico all’approfondimento e in primis alla conoscenza ovvero permette di portare alla luce buona parte dell’ignoto, compiendo un viaggio affascinante terramarique, inviando, una volta giunti nell’arcipelago di un mondo così lontano, un chiarissimo messaggio di universalità e bellezza dell’Arte, priva di qualsivoglia imponibile limes.