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Interviews

Colpire al cuore: Fabio Mollo e il cinema del qui e ora. Intervista al regista de Il padre d’Italia, ora al cinema

Con soli due film all'attivo Fabio Mollo si è imposto all'attenzione di pubblico e degli addetti ai lavori con un cinema tanto personale quanto contemporaneo. L'uscita nelle sale de "Il padre d'Italia" è stata l'occasione per ritornare su alcuni dei punti salienti della sua filmografia

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Volevo partire dall’impatto sensoriale delle prime due sequenze in cui l’attore introduce lo spettatore nell’esperienza del protagonista senza preamboli, in maniera molto brusca e, diciamo, senza veli. Ti volevo chiedere se era questa la tua intenzione e in che maniera l’inizio del film si lega al tuo modo di fare cinema.

Si, assolutamente, mi piace un tipo di cinema diretto, in grado di lavorare più sulla suggestione delle immagini che attraverso il parlato. Quindi un inizio del genere andava proprio in questa direzione, con la rappresentazione di un personaggio che si sta perdendo restituita dalla presenza di una realtà nascosta dalle luci della discoteca e in cui l’assenza di dialoghi viene supplita dalla forza delle immagini e da una recitazione fatta di sottrazione più che di aggiunte.

Abbiamo parlato delle immagini. Sempre nella prima sequenza il volto di Paolo appare trasfigurato da una luce verde e dal frastuono della musica che, insieme, rendono bene il senso di alienazione del personaggio

Esatto. All’inizio della storia volevo raccontare lo smarrimento di Paolo e del suo bisogno di ritrovarsi, quindi mi sembrava che gli accorgimenti formali a cui tu accennavi rappresentassero al meglio quanto potesse essere alla ricerca di sé stesso e allo stesso tempo quale fosse il suo stato di confusione.

La costruzione di questa scena e l’effetto che produce mi ha ricordato Gomorra di Matteo Garrone. Anche nel lungometraggio del regista romano non c’era mediazione tra ciò che vede lo spettatore e ciò che stanno facendo i personaggi. Lo spettatore, di colpo, si trovava immerso in una realtà indecifrabile e spiazzante e anche lì, come nel tuo film, la vistosità dell’elemento cromatico era il segnale di un’esistenza fuori dal normale.

A parte il paragone per cui ti ringrazio, sono d’accordo con ciò che dici. A me ha sempre affascinato questo contrasto – che poi è quello di cui vive il cinema – tra la realtà e l’immaginazione e quindi il sogno. D’altronde il film inizia parlando di questo tema (“Tu sei il sogno che io non ho mai avuto il coraggio di sognare”) e la sequenza mi serviva per accordare il mondo reale, iperreale, super-reale nel senso di un realismo diretto, schietto e immediato, con la parte onirica che nel film sarà presente e si svilupperà nella parte finale.

Una delle caratteristiche della tua filmografia è questa facilità con cui passi da uno stato di coscienza all’altro, cosa che ti viene naturale, senza forzature. In questo senso, c’è anche un gran lavoro di montaggio di Filippo Montemurro con cui avevi lavorato anche ne Il sud è niente.

Confermo. Con Filippo c’è oramai una sintonia totale, tanto che una delle mie battute più ricorrente è quella in cui dico che non potrei fare film se non ci fosse Filippo. Lavoriamo assieme dai tempi del centro sperimentale, quindi c’è una conoscenza profonda e una condivisione di intenti che ci permette di arrivare all’obiettivo anche quando mi capita di non essere presente in sala di montaggio. La cosa che mi piace di lui è che sposa così tanto la nostra visione da essere più rigido di me nell’andare dritto al nocciolo, cioè lavorare sulla potenza dell’immagine più che sui discorsi dei personaggi. Addirittura, certe volte, capita che i pochi dialoghi presenti Filippo finisca per tagliarli pur di dare ancora più forza all’elemento visivo, per cui credo, per tornare alla tua domanda, che abbia sposato in pieno questa transizione tra reale e onirico e che la renda con un montaggio naturale e fluido e senza alcun stacco.

Paragonando Il sud è niente a Il padre d’Italia, che mi sembrano uno la prosecuzione dell’altro, mi volevo soffermare sulle loro scene iniziali, una dal forte sapore ancestrale, con l’immagine parziale di un corpo immerso nell’acqua e l’altra invece con il commento del protagonista sullo schermo nero, a ricreare lo spazio interiore che costituisce l’humus da cui nasce la storia. Un contesto, quest’ultimo, che alla pari de “Il sud è niente” conferma la predilezione per una narrazione anti-naturalista che scaturisce e trova ordine come conseguenza dello stato d’animo del protagonista.

Diciamo che il livello introspettivo è in tutti e due i film un dato fondamentale. Volevo raccontare due storie intime e quantomeno raccontare la realtà che toccavano con uno sguardo molto intimo e il più possibile soggettivo. Per fare questo ho scelto una messinscena e una drammaturgia che andasse a favore di tale scelta. Per me era importante che “Il padre d’Italia”, laddove “Il sud è niente”  era concentrato molto sulle atmosfere, portasse avanti questa intimità all’interno di una struttura narrativa più corposa.

Sempre comparando i due film, si nota una grande attenzione alla fotografia. Rispetto a quella bellissima de Il sud è niente, quella altrettanto bella di Daria D’Antonio si lascia indietro, con il progredire della storia, le ombre, diventando sempre più nitida. Come avete lavorato su questi aspetti.

Ho avuto la fortuna di lavorare con due bravissime direttrici della fotografia. Con Daria D’Antonio abbiamo lavorato in modo molto creativo, anche se avevamo pochissimo. Lei filma non solo la fotografia ma è anche operatrice di macchina, quindi c’era sintonia totale. Faceva la fotografia ma anche le inquadrature: era proprio il mio occhio, fisicamente. C’è stata cioè condivisione totale abbinata a un lavoro di manipolazione, nel senso che volevo che il film avesse sì un atmosfera molto realistica, utilizzando quindi la macchina a mano in grado di dare sempre la sensazione di stare assieme ai protagonisti, esaltando il loro senso di intimità, ma allo stesso tempo, però, facendo in modo che la luce fosse costruita, artefatta, in un certo senso spinta in una direzione ben precisa. All’inizio nella discoteca ma anche agli interni della dark room sono tutte atmosfere ben definite, molto marcate. Invece sul finale quando loro si mettono in viaggio, volevo che questa luce diventasse sempre più naturale, proprio perché il film dibatte su cos’è naturale e cos’è contro natura. Nel momento in cui il tema si avvicinava al concetto di contro natura volevo che l’estetica andasse verso una direzione naturale e naturalistica.

Prima mi parlavi della differenza che volevi marcare tra la prima e la seconda parte del film attraverso il diverso modo di filmare gli ambienti, inizialmente delineati senza particolari riferimenti topografici al contrario di ciò che avviene con il passare del viaggio di Paolo e Mia.

Sulle location è stato fatto questo ragionamento. Mia e Paolo iniziano il loro viaggio a Torino, che appare alla stregua di una qualsiasi città del nord: non si vede la mole, non si vedono i luoghi tipici della capitale piemontese perché volevo dare la sensazione dello spaesamento vissuto dai protagonisti. Diversamente, mano a mano che ci si sposta verso sud, i riferimenti aumentano: il mare, le montagne, lo stretto a Messina testimoniano con la loro riconoscibilità il fatto che i personaggi si sono finalmente ritrovati e hanno capito dove sono non solo in senso geografico ma anche metaforico.

I tuoi film sono storie intimiste. D’altro canto sono ambientate per buona parte nello spazio aperto e questo contrasto crea, quando i personaggi stanno in ambiente chiuso, un senso di oppressione, mentre gli ambienti esterni enfatizzano la loro voglia di libertà. Voglio dire che i due stati lavorano insieme per definire la condizione dei tuoi protagonisti.

Sì, hai usato la parola giusta. Credo che entrambi i film siano un inno alla libertà e al coraggio di essere liberi, e credo che una delle funzioni più belle ed emozionanti del cinema sia quella di regalare libertà ai propri personaggi e poi allo spettatore. Io per costruire questa sensazione tendo a evidenziare il contrasto tra gli spazi, quindi a rilasciare questa intimità attraverso la presenza di tali spazi. Poi c’è anche un elemento che mi piace molto e cioè collocare la storia in un posto per dare il senso di ora, adesso. Mi piace che entrambi i film parlino a una realtà, a qualcosa di tangibile, che succede adesso e non in maniera astratta, che parlino cioè dell’ora, dell’adesso, di noi.

Dal tuo film si esce più sereni di quando ci si è entrati poiché, alla constatazione che la famiglia tradizionale ha fallito i suoi obiettivi, subentra la consapevolezza che due personaggi come Paolo e Mia, non perfetti ma con i quali qualunque persona si può confrontare senza sentirsi in soggezione, siano in grado di creare qualcosa di perfetto e come dici tu di miracoloso.

Piace anche a me questo contrasto. Penso però, e lo dimostro nel mio film, che il modello di famiglia tradizionale non abbia fallito ma si sia solamente trasformata in qualcos’altro. D’altronde l’idea che questa istituzione si fondi più di ogni altra cosa sull’amore è forse il principio più tradizionale che esista in materia, anche se oggi sembra un concetto rivoluzionario e controcorrente. In fondo quello che fanno i protagonisti è ancorare il loro rapporto a questo sentimento. La scelta che fa Paolo nei confronti del figlio di Mia è dettata dall’amore e non da vincoli famigliari.

Tu di fatto presenti due personaggi che evidenziano un’identità sessuale più o meno precisa: nel caso di Paolo dichiarata, per quanto riguarda la Grazia de Il sud è niente, ancora da scoprire ma comunque suggerita. Di fatto, in entrambe la storie i personaggi vengono mostrati alle prese con una sessualità (etero) che contraddice i dati che avevamo a disposizione. E’ stato un modo per dire che l’amore supera qualsiasi etichetta e che ciò che conta è la verità dei sentimenti.

Per me questa cosa è centrale. Non credo di aver fatto un film politico e tantomeno di aver fatto un film etero e gay. L’intenzione era raccontare una storia di esseri umani che per natura non hanno etichette. Nella scrittura dei personaggi era importante che Mia e Paolo fossero più umani possibile e che il loro fosse un legame puro. Se avessero avuto un qualche tipo di etichetta non sarebbe stato possibile raggiungere questa purezza.

Però, se ci pensi, la tua scelta è stata tutt’altro che scontata e anzi mi sembra una cosa molto forte.

Non è un fatto scontato e la cosa curiosa è che la maggior parte del pubblico ha accolto le scelte dei personaggi, dimostrando che la società in cui viviamo è molto più avanti della politica che l’amministra e dei media che la raccontano. Inoltre, tra le persone che sono rimaste spiazzate da questa scelta c’è stato più il pubblico omosessuale che eterosessuale. Questa cosa mi ha colpito positivamente. Mi ha fatto sorridere, però non me l’aspettavo.

Le analogie tra Il sud è niente e Il padre d’Italia non escludono motivi di discontinuità, come il fatto che in quest’ultimo film ti rivolgi molto meno al paesaggio e più al corpo degli attori ,cosa che sul piano cinematografico si traduce nella diminuzione dei campi lunghi a favore di riprese più strette e ravvicinate ai personaggi.

Si è vero. A me piace essere al servizio della storia senza sottolineare la mia presenza dietro la macchina da presa. In questo caso volevo fare un film con due personaggi che fanno un viaggio e che mano a mano diventano complici in una maniera molto intima. Sin dall’inizio ho fatto questa scelta e, considerando il poco tempo che si ha oramai per fare un film, soprattutto per un regista indipendente come me, ho preferito dedicarmi per lo più al lavoro con gli attori e magari fare qualche inquadratura in meno. Poi, per quello che ti dicevo prima, gli aspetti legati al paesaggio geografico occupavano un posto secondario rispetto all’universo umano ed emotivo che Mia e Paolo dovevano raccontare.

Il padre d’Italia mi sembra un film più “fisico” rispetto all’altro, non per niente tu lavori con Luca Marinelli che è un attore in cui la recitazione passa molto attraverso il corpo. Mi dici com’è stato lavorare con lui e perché l’hai scelto.

Ho scelto Luca perché è un grandissimo fuoriclasse ed è un attore che incarna perfettamente la mia idea d’attore, lavorando con la testa e col cuore, con i piedi e con le mani: Luca è prima di tutto un essere umano. E poi perché ha un talento di cui neanche lui si rende conto.

E’ vero. Quando lo intervistai mi confessò lui stesso di non essere consapevole delle proprie performance.

E’ bella questa cosa. Perché gli dona la purezza di un bambino che non è consapevole di quello che sta facendo e quindi della potenza pazzesca e spiazzante che un attore come lui sprigiona davanti alla macchina da presa. L’ho conosciuto a Berlino dove lui era venuto a vedere il mio film (“Il sud è niente”) e da allora gli ho sempre proposto di recitare nel mio prossimo lungometraggio. La cosa più bella che racconta spesso anche lui è che la prima volta in cui ci siamo incontrati abbiamo parlato di tutto tranne che del film.

Senza dimenticare Isabella Ragonese. In questo senso penso che tu abbia scelto due grandissimi attori e, devo ammetterlo, due degli interpreti che mi piace di più ritrovare sullo schermo.

Anche per me è la stessa cosa. Personalmente la scelta è stata facile: ho espresso due desideri e sono stato accontentato, non credevo ai miei occhi quando li ho ritrovati entrambi sul set. Isabella la seguo addirittura da “Nuovomondo”, quindi la sua bravura non è stata una sorpresa. Sullo schermo lei e Marinelli formano davvero una coppia perfetta.

Rispetto al panorama cinematografico italiano ho trovato molte analogie, tematiche ed estetiche, tra i tuoi lavori e quelli di registi come Laura Bispuri (Vergine giurata), Carlo Lavagna e Piero Messina (L’attesa). Mi sembra che parliate la stessa lingua. Tu cosa ne pensi.

Guarda, hai menzionato tre colleghi che stimo molto. Con Piero sono anche molto amico. Mi piace pensare che in Italia ci sia una nuova generazione di registi che sta andando avanti usando linguaggi diversi messi a disposizione di storie importanti. Insomma, sono molto fiducioso per le prossime annate del nostro cinema.

Da spettatore che cinema ti piace vedere.

Non ho un genere che prediligo. Sono onnivoro, guardo di tutto. Ti posso dire che ultimamente ho visto “Arrival” e mi sono emozionato tantissimo. E’ un film sull’esistenza umana che per giorni ha continuato a commuovermi.

E quello che ti ha ispirato nella tua carriera da regista.

Direi la vita, nel senso che mi considero un regista improvvisato che osserva, costruisce e poi racconta. Era quello che facevo da piccolo nel mio quartiere a Reggio Calabria e che continuo a fare anche adesso.

Ho letto che avresti già un progetto in cantiere intitolato White Shadows. Puoi dirmi qualcosa di più.

Non ti posso dire tanto perché sono scaramantico. Ti dico però che abbiamo già una sceneggiatura in revisione. Stiamo cercando di capire se è possibile trarne un film.

Carlo Cerofolini

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