Sinossi
Un uomo muore per un attacco di cuore sul luogo di lavoro. È l’impiegato dell’anno di una grande società finanziaria americana, che trae dal materialismo, dall’arrivismo e dallo sfruttamento dei dipendenti la propria linfa vitale. L’incubo capitalista in sostanza. Il giovane Lockhart (Dane DeHaan), broker ambizioso e cinico della compagnia, vive a suo agio in un mondo fatto di squali e demoni metropolitani, indifferenti a qualsiasi legame affettivo ed ossessionati dalla sfrenata ricerca di potere. Questi sono i presupposti interessanti di La cura dal benessere, film diretto da Gore Verbinski, che si presenta come un thriller psicologico con intenti modesti di riflessione esistenziale. Tuttavia, queste condizioni di partenza vengono rinnegate nel corso del film, che sperpera gradualmente ogni briciola di potenziale, precipitando rovinosamente fino all’epilogo.
Recensione
I problemi sono pochi, ma critici ed hanno l’aggravante di vanificare gli esisti positivi del film. A cominciare dalla costruzione e dallo sviluppo dei personaggi, spaventosi ed affascinanti al tempo stesso. Essi agiscono all’interno di una storia, composta da un susseguirsi di eventi misteriosi, di cui sono motore e “colore”. Se La cura dal benessere oscilla fra il genere horror e il thriller, la ragione è riconducibile proprio alla valenza dei personaggi, che risplendono di un’inquietante oscurità interiore. È per questo motivo che quando Lockhart viene mandato in una SPA ai piedi delle Alpi svizzere con il compito di recuperare il proprietario della sua compagnia, mai più tornato dalla vacanza, il thriller psicologico sembra convertirsi in un thriller esistenziale. Il protagonista incontra un sé maturo, che gli indica la strada da “non seguire” attraverso contorti presagi crepuscolari. Il film è ricco infatti di sequenze ai limiti dell’onirico, il cui significato viene rimandato ad una successiva rivelazione catartica del mistero. Il compito di ricomporre i tasselli del caso spetta al giovane Lockhart, intenzionato fin da principio a riportare il proprio superiore a New York e tornarsene alla fredda ed insensibile vita metropolitana. Risulta ambigua però l’evoluzione del personaggio, che sembra perdere continuamente di vista l’obiettivo della sua spedizione, forse a causa della “cura” speciale somministratagli nella clinica del benessere, oppure per un più complesso bisogno di elaborazione del trauma personale represso.
Verbinski costruisce molto bene l’impalcatura strutturale della storia, offrendo al film il giusto crescendo narrativo. La progressione dei fatti è supportata, oltre che dall’alternarsi di momenti di accumulazione e di rilascio della tensione, anche da una criptica a e spaventosa rete di indizi, che portano Lockhart sempre più vicino alla risoluzione del caso. Questo fa de La cura dal benessere un film per buona parte avvincente, che cattura lo spettatore per la sua capacità di alimentarne le attese ed ispirare curiosità. Purtroppo i problemi arrivano nell’ultima mezz’ora di film, quando tutte le aspettative s’infrangono contro un nodo gordiano che si scioglie malamente o, peggio, non si scioglie affatto. Il modo più veloce per distruggere il potere narrativo di un mistero è quello di rivelare l’inconsistenza e la fragilità della sua risoluzione. Nel momento di più elevato del climax narrativo, il film viene abbandonato al caos più totale e ne consegue un finale oltremodo insoddisfacente, con effetti dannosi retroattivi. Lo svelamento del mistero è confuso ed inconcludente; si perdono i tasselli a cui la narrazione, così come lo spettatore, avevano dato importanza, finendo per frustare le aspettative guadagnate in precedenza. La delusione finale è il corrispettivo emotivo dell’implosione del film, che collassa miseramente su se stesso, sotterrando i buoni propositi sotto le macerie.
Un doppio peccato, se si pensa che il lavoro registico e la sua risoluzione tecnica è più che accettabile. Verbinski riesce a ricreare atmosfere inquietanti e cattura lo spettatore con scene dalla ricorrente tendenza horror. Il film mostra il meglio di sé nel regime dell’onirico e dell’incubo con soluzioni finalizzate a rendere incomprensibili i confini fra realtà ed incubo. Una buona parte del merito va alla fotografia che riesce a dare sfumature specifiche ed espressive alle singole scene, istituendo un legame solido fra immagine e progressione narrativa. Fondamentale a riguardo, l’uso del suono che agisce quasi da metronomo della narrazione e scandisce, con il giusto intervento, i tempi e i movimenti del film. Sul montaggio il discorso si fa più complesso: sebbene sia apprezzabile il tentativo di costruire momenti di narrazione non lineare, con flashback e sequenze alternate, esse vengono depotenziate dagli esiti infausti raggiunti nel finale, che ne riducono la valenza ai fini del discorso generale (come per il rapporto fra Lockhart e sua madre) o ne confondono il significato ( nel caso del rapporto fra Lockhart e suo padre e della maturazione sessuale di Ana).
Il problema più grande però è che La cura dal benessere abbandona totalmente il discorso interessante iniziato in apertura del film. Quel discorso sulla declinazione capitalistica del lavoro, sul «male oscuro che ci rovina dall’interno», sul bisogno despotico di governare gli altri e sfruttarli fino alla consumazione. Tutti temi che rimangono senza uno svolgimento, senza un riscontro che li riconnetta alla trama. Al contrario essi spariscono dal film in modo fin troppo evidente, impedendone la valorizzazione. Un peccato dunque, se si pensa che La cura dal benessere poteva essere un film molto più profondo di quanto non volesse dare a vedere.
Emanuele Paragallo