Nel silenzio ho cominciato a meditare, ripetendo al passato il mio mantra: -Bonzo! Bonzo! Fui ‘no stronzo!- Vista la rima, culminata in un ormai più che sdoganato turpiloquio, verrebbe da pensare immediatamente ad una battuta tipica del più classico dei personaggi di Tomas, vale a dire al ladruncolo Sergio Marazzi detto ‘er Monnezza’, o magari, perché no, anche a Nico Giraldi, ‘er Pirata’, la variante, in seguito sviluppata da Bruno Corbucci, del personaggio originario nato dal sodalizio artistico Lenzi/Milian. E invece, la citazione di cui sopra, è presa pari, pari dalle ultime righe del suo bellissimo libro Monnezza Amore Mio, scritto in collaborazione con Manlio Gomarasca. Un’autobiografia sincera, spietata, in cui l’attore si mette a nudo, esternando tutto il proprio amore verso il personaggio romano in tuta blu, capelli ricci e battuta pronta che tanta popolarità gli ha donato. L’alter ego naturale di Tomas, proprio perché così distante dall’interprete che per anni ha saputo donargli un volto.
Ritrovarsi a scrivere di Tomas Milian, l’attore icona, soprattutto del prolifico cinema italiano degli anni ‘60 e ‘70, morto il 22 marzo a Miami dove risiedeva ormai da anni, è al tempo stesso doloroso ed entusiasmante, tragico e comico; già, doloroso e tragico perché le circostanze non sono esattamente le migliori; divertente e comico perché la sua epopea personale e divistica all’interno della cultura italica – e non solo – è stata davvero un trionfo di successi e fragilità, tipici di ogni divo che si rispetti.
Milian arriva a Roma il 30 aprile 1959 – il primo giorno del resto della mia vita – come scrisse nel suo libro, e da quel momento, fino alla prima metà degli anni ‘80, la città eterna divenne la sua unica casa, la sua dimora d’adozione, il luogo dell’affermazione, del suo trionfo artistico. Fin lì la sua vita non era filata esattamente liscia, è vero, era un ragazzotto benestante dell’alta borghesia cubana, disimpegnato e donnaiolo, ma nel suo spensierato edonismo incombevano tragedie e insicurezze: il suicidio del padre, sparatosi proprio davanti agli occhi del dodicenne Tomas, e di conseguenza tutte le fragilità di un ragazzo con delle pulsioni emotive notevoli, un artista ancora inconscio, amante del cinema americano, affascinato dall’ Actor’s Studio e che sognava di diventare attore. Fin da giovanissimo, Tomas Milian voleva essere un attore, probabilmente non avrebbe potuto fare altro, un attore che, paradossalmente, si sforzava di non recitare, sì, avete capito bene, non amava affatto l’uso del verbo recitare, dal suo personale punto di vista non era strettamente connesso con il mestiere dell’attore più puro; lui ambiva alla verità, alla realtà, alla sincerità, mentre recitare significava in qualche modo mentire; era una parola che rifiutava a priori, sapeva di posticcio, di artificio, e questa sua estetica, chiamiamola così, lo ha accompagnato per tutta la sua vastissima carriera di ruolo in ruolo, vivendo il mestiere.
Atterrato a Roma, il cubano non ancora romano, fu subito affascinato dall’arte che la Capitale offriva e di punto in bianco si ritrovò catapultato sul set de La Notte Brava di Mauro Bolognini, il primo di una serie di film impegnati, intellettuali, come li chiamava lui, nel ruolo di Achille, un giovane sessualmente ambiguo. Il film fu un chiaro successo, un trampolino di lancio per l’estroso cubano che si stava facendo largo nella prospera industria del cinema italiano e negli ambienti chic della borghesia capitolina, tanto che, dopo questo esordio, fra svariate peripezie personali, come quando ospite a casa di un tizio che gentilmente gli offrì un tetto per dormire distrusse e arse due sedie del settecento solo per difendersi dal freddo, arrivarono altri titoli, altre parti: Il Bell’Antonio, al fianco di Marcello Mastrioanni, nuovamente per la regia di Bolognini, I Delfini di Francesco Maselli, in coppia con Claudia Cardinale, e L’Imprevisto di Alberto Lattuada. Nel 1963 è Gabriele Ingenis ne La Banda Casaroli di Florestano Vancini, per poi proseguire con Gli Indifferenti, ancora per la regia di Francesco Maselli, e Io uccido, tu uccidi e I soldi, entrambi di Gianni Puccini.
Ma è il 1967 l’anno della svolta, quando con la tripletta in salsa spaghetti western Faccia a Faccia, La Resa Dei Conti – entrambi di Sergio Sollima, dove appare per la prima volta nelle vesti del peone Cuchillo – e il violentissimo e stra-censurato Se Sei Vivo Spara di Giulio Questi, film di cui Tomas dirà sempre benissimo, riesce a sganciarsi dal cinema più ingessato per potersi finalmente concedere al proprio istrionismo visivo, ad un eclettismo spasmodico, viscerale. È il primo, quasi definitivo strappo col cinema dei piani alti, l’incipt della sua avventura con il cinema più popolare, di cassetta, un cinema che il nostro ha saputo cavalcare con la medesima, sofferta genuinità che da sempre è riuscito a trasmettere al pubblico.
Carlo Lizzani lo dirigerà poi nel notevole Banditi a Milano, nel quale sarà per la prima volta un poliziotto, poi di nuovo con Sollima in Corri Uomo Corri, dove riprenderà il ruolo di Cuchillo chiudendo, di fatto la trilogia del western più politico, percorso dalle tensioni del ‘68. Di seguito è Tepepa, nell’omonimo film di Giulio Petroni, film noto anche per la partecipazione di Orson Welles, con il quale nascerà un rapporto turbolento; nel 1970 è invece la volta de O Caganceiro di Giovanni Fago e del western rivoluzionario Vamos a Matar Companeros di Sergio Corbucci, dove è El Vasco, una sorta di Che un po’ cazzone e mascalzone, in un’affiatata coppia con Franco Nero, mentre è del 1971 il suo ritorno ad Hollywood per lo squinternato Fuga da Hollywood di Dennis Hopper, opera lisergica, totalmente fuori di testa dell’autore di Easy Rider. Nel frattempo, nel suo dimenarsi fra avventure sessuali, di ogni tipo, alcol e droghe, arrivano i due capolavori: nel 1972 Non si sevizia un paperino di Lucio Fulci e nel ‘74 Milano Odia: la polizia non può sparare di Umberto Lenzi, nel ruolo del ferocissimo Giulio Sacchi, sottoproletario incattivito e spietato, un ruolo sofferto, conturbante, maledetto. In quegli anni lo spaghetti western non viveva un buon momento, il poliziesco era la nuova gallina dalle uova d’oro e Milian divenne un volto fisso del genere sotto la guida di Umberto Lenzi, con il quale darà vita a due dei personaggi storici del filone, destinati a creare clamore e fanatismo: Il gobbo in Roma a mano armata e proprio ‘er Monnezza ne Il trucido e lo sbirro, entrambi poi confluiti ne La banda del gobbo, film dove Milian si concederà una meravigliosa doppia performance nel ruolo dei fratelli Sergio e Vincenzo Marazzi. Ma ‘Er monnezza, che lo si voglia ammettere o no, resterà il ruolo che più di ogni altro rimarrà cucito addosso all’attore cubano, il personaggio emblema della romanità, grazie anche al puntuale doppiaggio di Ferruccio Amendola, catalizzatore di una voracità picaresca; Monnezza ha saputo sdoganare la parolaccia, rendendola musicale, al tempo stesso poetica e innocua, con quelle sue rime sempre azzeccate, pungenti, dirette, raggiungendo un tale centrismo nell’immaginario collettivo italiano da tramutarlo in un’autentica maschera della commedia dell’arte; oggi lo possiamo ammettere tranquillamente, depurati come siamo da quell’intellettualismo talvolta stomacante e un po’ snob.
L’ascesa di Milian a trionfatore assoluto del box office continuerà attraverso il nuovo sodalizio con Bruno Corbucci, i due prenderanno il carattere del monnezza, stile, abbigliamento, trucco e parrucco, gli cambieranno il nome in Nico Giraldi, detto ‘er pirata’, e lo faranno diventare maresciallo in una serie lunghissima di film, alcuni riusciti, altri meno, che durerà fino al 1984, anno di Delitto al Blue Gay, il canto del cigno dell’amatissimo personaggio. In questo senso è ben nota la confusione che aleggia tuttora fra il personaggio creato dalla coppia Milian/Lenzi e quello estrapolato dal sodalizio Milian/Corbucci; per il grande pubblico non c’è differenza fra i due, ed entrambi vengono spesso accomunati, manco a dirlo, come ‘er monnezza’, nonostante si parli di due differenti caratteri, comunque, volutamente interscambiabili, anche per volere dello stesso Milian. La potenza del personaggio ‘monnezza’ sta proprio qui, nella sua voglia di affermazione, nonostante sia apparso ufficialmente in soli tre titoli. Ed è qui che comincia la forza dell’attore, anima e corpo del personaggio, quel cuore senza il quale il carattere sarebbe restato su carta. Nel bel mezzo della consacrazione del Monnezza e di Nico Giraldi, Milian si concederà ancora al cinema d’autore: nel ‘79 con La Luna di Bernardo Bertolucci e nel 1982 diretto da Michelangelo Antonioni in Identificazione di una donna.
A questo punto la carriera di Tomas virerà verso altri lidi, tornerà negli USA, dove ricomincerà come caratterista di lusso, ovviamente con molta meno notorietà, come a volersi spogliare, depurare dal tanto trambusto degli anni capitolini che lo videro divo indiscusso – quando i divi avevano ancora una ragion d’essere – di una stagione che ci è tanto cara. Partecipò ad un episodio del serial Miami Vice, lavorò con Abel Ferrara, Oliver Stone, Steven Spielberg, Tony Scott, Sydney Pollack e nel successo di Steven Soderbergh, Traffic, nelle vesti del generale Salazar.
L’ho già detto, a me Tomas non piace è vulnerabile, ingenuo, timido. Monnezza è coraggioso, saggio, estroverso. L’unica cosa che abbiamo in comune è il senso dello humor. Scriveva così nel suo libro, Tomas, dove non fa che tessere le lodi di Roma, la sua città, il suo amore per i romani, compagni indiscussi nella sua evoluzione culturale e del Monnezza, che sarà pure il coraggioso, saggio ed estroverso della situazione, ma che senza la vulnerabilità, l’ingenuità e la timidezza dell’uomo/attore, sicuramente, non sarebbe mai nato.
Anche se sta volta se n’è proprio annato.
Manuele Bisturi Berardi