Sinossi: Anche se Kevin ha mostrato ben 23 personalità alla sua psichiatra di fiducia, la dottoressa Fletcher, ne rimane ancora una nascosta, in attesa di materializzarsi e dominare tutte le altre. Dopo aver rapito tre ragazze adolescenti guidate da Casey, ragazza molto attenta ed ostinata, nasce una guerra per la sopravvivenza, sia nella mente di Kevin – tra tutte le personalità che convivono in lui – che intorno a lui, mentre le barriere delle le sue varie personalità cominciano ad andare in frantumi.
Recensione: È una curiosa circostanza quella che segna il ritorno in sala, quasi in contemporanea, di due autori come Tim Burton e M. Night Shyamalan che, oltre ad avere in comune una certa fascinazione per la diversità intesa sia come dono che come fonte di emarginazione sociale, condividono l’opacità delle loro più recenti prove artistiche.
Sia Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali che questo Split sono tentativi mediamente riusciti di superare un’impasse creativa (e, di conseguenza, anche commerciale) che ha coinciso con un allontanamento dalle coordinate che avevano reso inconfondibili i loro rispettivi stili proprio attraverso il ritorno a quelle stesse coordinate. Se quindi Burton si riappropria del mood dark e goticheggiante delle sue opere migliori pur senza accostarvisi nei risultati, Shyamalan riscopre il gusto per lo switch narrativo che ha reso film come Il senso senso e The Village dei classici istantanei. Nel caso di quest’ultimo è importante sottolineare come il processo di rinascita fosse già iniziato con il precedente The Visit e sia di fatto legato a due fondamentali circostanze. La prima è senz’altro un repentino quanto radicale abbassamento di profilo che, allontanando il regista dall’ipertrofica grandeur di megaproduzioni (fallimentari) come L’ultimo dominatore dell’aria e After Earth, gli ha evidentemente permesso di tornare a ragionare su storie più personali. La seconda circostanza – forse più importante in quanto ha favorito la prima – è invece l’incontro con Jason Blum, deus ex machina produttivo di molto dell’horror migliore degli ultimi anni, da Insidious a Sinister. E se in The Visit è toccato a Shyamalan adattarsi in qualche modo all’immaginario perturbante di riferimento della Blumhouse attraverso il ricorso al found footage, per Split avviene il processo esattamente contrario, così che l’autore indo-americano è libero di tornare idealmente a quell’Unbreakable di cui, per sua stessa ammissione, quest’ultimo film rappresenta una sorta di spin-off mancato. Sì, perché pare che il personaggio, che un disturbo dissociativo porta a vivere 23 esistenze differenti, fosse già presente in un primo script del successore de Il sesto senso, per poi essere messo in stand-by in attesa di un progetto che lo vedesse protagonista assoluto.
Split è infatti uno di quei film che ruotano tutti attorno alla straordinarietà (da intendersi nell’accezione di “extra ordinario”) dell’oggetto che descrive. Il risultato è, paradossalmente, l’opera più lineare di M. Night Shyamalan, oltre che la più cupa. Un thriller che si finge psicologico ma che, fin da subito, abbandona la componente patologica per affrontare le diverse personalità del protagonista come fossero davvero villain differenti. In questo risulta fondamentale la poliedrica performance di James McAvoy che, lavorando di sottrazione, scongiura le derive più grottesche che un personaggio del genere facilmente potrebbe avere e connota in maniera indelebile un film che funziona ma senza rischiare granché. Se si esclude infatti la raffinatezza del one man show di McAvoy (per apprezzare al meglio il lavoro dell’attore sui differenti toni di voce si consiglia di vedere il film in lingua originale) Split è un thriller piuttosto convenzionale incorniciato da un incipit di assoluto livello ansiogeno e da un epilogo straordinario nel suo cortocircuitare buona parte del cinema di Shyamalan in un’unica scena. Piace senz’altro per come racconta due lotte che si svolgono in parallelo: quella delle ragazze prigioniere per la libertà e quella che si svolge nella testa del loro carceriere e che vede battersi le sue diverse personalità, ognuna delle quali cerca di prendere il sopravvento sull’altra. Piace un po’ meno semmai per come l’accumulo di tutti questi elementi non trovi alla fine uno sbocco narrativo adeguato.
Non una svolta epocale, insomma, né per il regista né per le sorti del thriller moderno, ma un notevole passo in avanti nella ripresa di una carriera che sembrava ormai in caduta libera. Proprio come Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali per Tim Burton.
Fabio Giusti