Non sbaglia un colpo Isabelle Huppert; quest’anno non si è fatto in tempo ad ammirarne, e non certo per la prima volta, le grandissime doti interpretative mostrate nell’ultima bellissima opera di Paul Verhoeven (Elle), che torna a stupire offrendo una prova altrettanto esemplare e di grandissima intensità, regalandoci un altro straordinario personaggio femminile.
Nathalie è la protagonista dell’ultimo lavoro di Mia Hansen–Løve, giovane regista e sceneggiatrice francese, classe 1981, già al suo quinto lungometraggio e particolarmente apprezzata nel suo paese, dove ha presentato le sue due prime opere al Festival di Cannes e nel 2009 ha vinto il premio speciale della giuria nella sezione Un certain Regard con il suo secondo film Il padre dei miei figli. Dopo l’anteprima di Berlino, dove ha vinto l’Orso d’Argento per la miglior regia il suo L’avenir viene riproposto nella (generosissima quest’anno) sezione Festa Mobile del 34esimo TFF.
L’attrice, che si può dire senza il minimo rischio di esagerare, regge da sola la gran parte del film innalzandone marcatamente il valore assoluto, sfoggia l’ennesimo personaggio che sembra scritto apposta per lei, anche se a questo punto i ruoli che paiono confezionati espressamente per questa grande interprete sono così tanti da rendere sempre più palesi i suoi meriti. È quindi ancora una volta perfettamente a proprio agio nelle sue vesti, in questo caso quelle di una meravigliosa donna di mezza età che ha costruito la sua vita e affronta lo scorrere del tempo, riuscendo a comunicare perfettamente i vissuti che la attraversano sia nelle piccole e ordinarie situazioni quotidiane, sia nei momenti difficili relativi a eventi più drammatici, come un matrimonio che fallisce o la perdita di un genitore, che intervengono comunque nella vita di chiunque ma non senza in qualche modo sconvolgerla. Così la vediamo autentica, naturale, sempre se stessa, calzare perfettamente i panni dell’intellettuale amante indefessa del suo lavoro, la vediamo madre, figlia, moglie, amica, mentore, in una parola donna in tutte le sue forme, imperfezioni, espressioni più naturali, contraddizioni e sofferenze, donna mentre solca il suo tempo finito che scorre senza appello – un tempo che assume una valenza fondamentale nella struttura del film – fino a spogliarsi di tutti quei ruoli che le conferiscono sicurezza, riconoscimento, senso di appartenenza, stabilità, mostrandosi in tutta la sua vulnerabilità con una compostezza e un orgoglio invidiabili, senza rinunciare all’espressione della fragilità che caratterizza quello stato in cui si trova ad essere sguarnita e apparentemente più debole, ma in realtà solo più scoperta e visibile ai nostri occhi.
Nathalie è fiera e totalmente in sintonia con se stessa nel suo lavoro, si percepisce quanto lo ami e quanto vi si riconosca, quanto lo senta profondamente suo al di là della professione, lo si vede nel fatto che è difficile trovare una scena in cui non abbia un libro in mano, libro che poi ha sempre voglia di condividere, lo si vede nel riscontro dei suoi allievi che la adorano e sono stimolati da uno slancio che solo un’insegnante appassionata sa trasmettere, lo si vede nella passione sempre viva con la quale difende a spada tratta, quando vengono minacciati, le sue lezioni, i suoi allievi, la forma con la quale verranno presentati i suoi scritti, ma soprattutto i principi in cui crede, costruiti nel tempo, con l’esperienza, raccogliendo le influenze degli autori a lei cari (Rousseau, Pascal) che cita più volte, ma senza farsene pervadere seguendoli senza riserve e perdendo di autonomia individualità.
Così è visibilmente ferita quando il suo pupillo, uno dei suoi vecchi allievi divenuto adulto e rimastole amico, li mette in discussione, accusandola di incoerenza tra il suo modo di essere e di vivere e le idee che porta avanti nei suoi insegnamenti, dimostrandole di non aver capito molto di lei, ma soprattutto è rammaricata nel rendersi conto di non essere riuscita a trasmettere a uno dei suoi studenti più amati, valori che era sicura fossero chiari.
“Perchè non vuoi uscire da questi schemi? Sono sterili… non ho l’ambizione di fare la rivoluzione, è vero. Il mio progetto è molto più modesto. mi accontento di provare ogni giorno a insegnare a dei giovani a pensare con la propria testa.”
Questa affermazione, che poi riflette tutto il suo modo di vivere, proprio quello che il suo prediletto ferendola le contesta, può avere una connotazione diversa a seconda del punto di vista con il quale la si accoglie. Così come il giovane la accusa, a dire il vero, con non poca spocchia e forse superficialità, potrebbe apparire come una rinuncia a qualsiasi velleità di cambiamento, come un atteggiamento rassegnato, figlio dell’adagiarsi su uno stile di vita comodo, borghese, per usare un termine tanto inflazionato quanto ormai ben poco rivoluzionario; ma osservando bene questa donna, si ha l’impressione di una persona tutt’altro che rinunciataria. È lei la prima ad accusare il marito lamentandosi della staticità del suo pensiero. Semplicemente, probabilmente non aderisce alla rivoluzione fine a se stessa, dopo aver vissuto i suoi anni, fatte le sue esperienze, non si riconosce nell’essere anticonformista a priori, non ne vede l’utilità, anzi vi vede appunto uno schema sterile, un’altra massificazione, mentre tende ad aderire primariamente a se stessa, a quella se stessa fatta anche di idee rivoluzionarie ma che ha fatto proprie, ai suoi principi e i suoi valori, giusti o sbagliati che siano ma suoi, che sono prioritari in modo tutt’altro che passivo o arrendevole. E probabilmente vivendo in questo modo è più rivoluzionaria di chi, spinto da onde e ideali travolgenti non propri, tende ad essere dissidente a priori.
E ancora Nathalie è una figlia amorevole quanto stressata e bisognosa del proprio spazio e della propria autonomia da una madre anziana e ormai capricciosa di cui si occupa sino alla fine con dedizione, è una donna abbandonata da un uomo con il quale credeva di trascorrere il resto della sua vita, e la Huppert trasmette magnificamente tutte le tonalità emotive che caratterizzano questi rapporti, la compassione per le sofferenze della donna che la madre è stata, il senso di colpa quando la lascia in una casa di cura, il dolore profondo per la sua perdita quando muore, la confusione e il turbamento con cui cade dalle nuvole quando il marito la lascia da un giorno all’altro dopo trent’anni di vita insieme per andare a vivere con un’altra donna.
E infine, Nathalie è smarrita e fragile quando, come accennato sopra, perso il riconoscimento e l’autorevolezza datigli dalla pubblicazione dei suoi scritti, i figli ormai grandi e fuori casa, deceduta la madre e perso il marito, esce da tutti i ruoli che hanno contraddistinto, colorato e strutturato la sua esistenza, e spaesata prova ad attingere alla propria essenza raccogliendo tutta la linfa vitale che riesce a trovare dentro di sé, alternando il cercare di convincersi che non è poi così grave, che può farsi bastare le sue passioni e i suoi libri, che ora che non è più figlia, moglie, madre a tempo pieno sarà molto più libera, al piangere da sola, nei momenti più duri, quando si rende conto che poi così facile non è. Ma non crolla mai, va avanti, così come deve essere, soffre ma rimane in piedi con una a tratti disinvolta, a tratti maldestra, ma sempre enorme, dignità.
“Finchè si desidera, può accadere che si sia felici, ci si affida a ciò che verrà.
Se la felicità non arriva, la speranza si prolunga e il fascino dell’illusione dura quanto la passione che lo causa. Così questo stato basta a se stesso e l’inquietudine che dà è una sorta di gioia che supplisce alla realtà, che è meglio, forse.
Infelicità a chi non ha più niente da desiderare. Egli perde, per così dire, tutto ciò che possiede.
Si gioisce meno di ciò che si ottiene che di ciò per cui si spera e non si è felici se non prima di esserlo.”
Sono le parole di Jean Jacques Rousseau che Nathalie legge ai suoi allievi durante una lezione e che possiamo ritrovare anche in molti altri autori, ne fa un discorso bellissimo Dostoesvckij in quel meraviglioso racconto che è Le notti bianche per esempio.
Parole che paiono una sorta di effimera via d’uscita, un modo triste di gestire ciò che resta e ciò che manca.
L’illusione.
“Ci si accontenta di sostituire il sogno con la realtà.
Compensare l’assenza, procurando una gioia puramente mentale, irreale in un certo senso, ma efficace.“
Perché è l’unico modo di far dipendere le cose soltanto da sé, di non avere la necessità di un altro, di essere visti, amati voluti, di qualsiasi cosa preveda la presenza di un altro essere umano, l’unico modo di sopperire alle insidie della reciprocità.
Rousseau, Dostoevskij, Nathalie propongono così l’idealizzazione come strumento con cui affrontare tutto ciò per cui non c’è più tempo, le ambizioni irrisolte, i desideri negati, i sogni perduti, un modo per sostenere lo spietato connubio tra l’inesorabilità di un tempo che passa e non torna e una progressiva e sempre maggiore solitudine.
Tra l’altro, curiosamente Nathalie non è una donna così diversa da Michèle, la protagonista di Elle di Verhoeven, altro bellissimo film di quest’anno in cui la Huppert come detto sopra, ha lavorato in modo eccellente. Entrambe si trovano più o meno nello stesso periodo di vita, donne in carriera con un matrimonio fallito, una madre anziana che perdono, figli adulti che le rendono nonne e un gatto. Sono due donne che, al di là degli eventi di vita che le accomunano, si somigliano perché estremamente padrone di se stesse, dotate di grande dignità e in grado di gestire in autonomia, per quanto sofferta, ciò che la vita mette loro davanti. Una staccando la spina e chiudendo apparentemente i rubinetti emotivi rifugiandosi nell’ambiguità, l’altra andando avanti sempre e comunque cercando di tenere insieme i pezzi di sé. Entrambe, nonostante un lavoro di successo, gli amici, una quotidianità esteriormente solida, profondamente sole.
Ebbene, sia L’avenir che Elle possono annoverarsi tra le visioni di quest’anno assolutamente da non perdere. Isabelle Huppert le illumina ambedue, dando loro con il suo talento e la sua presenza scenica un forte temperamento e un’altrettanto penetrante intensità, senza dimenticare il fatto che sia Verhoeven sia Mia Hansen-Løve, l’uno nella sua collaudata esperienza, l’altra nella sua freschezza, svolgono intorno a questa donna sublime un perfetto lavoro di scrittura e di regia con il risultato di offrire al cinema del 2016 due opere davvero di grande qualità.
Così, non sono da sottovalutare ed è doveroso riconoscere il pregio di elementi che contribuiscono a rendere questa pellicola un concentrato di merito e virtù, come la bellissima colonna sonora, comprendente brani che alternano musica classica, melodica e folk (la Hansen-Løve spazia tra Schubert, Moodie Guthrie e The Fleetwoods) che riscaldano e amplificano i momenti di maggiore tensione emotiva in contrasto con un’ambientazione più fredda e austera, ben rappresentata dall’ottima fotografia, forse a testimoniare un mondo esterno non esattamente accogliente.
Insomma, tutti gli ingredienti e forse anche di più, per assicurarsi una visione godibile che non passerà inosservata ma verosimilmente lascerà in qualche modo il segno.
Roberta Girau