“Nicolas Winding Refn stupisce con il suo ultimo film, fornendo una prova di grande visionarietà, rievocando tanto cinema d’autore rielaborato in maniera originalissima”.
Nicolas Winding Refn stupisce, smarca e disorienta tutti quelli che, dopo l’abbuffata di ultraviolenza un po’ furba, ma efficace di Bronson, si aspettavano un film che si collocasse sulla scia appena lasciata dalle gesta del detenuto più pericoloso della Gran Bretagna. Il regista danese, invece, come già aveva fatto con Fear X, esperimento parzialmente riuscito, si svincola dal genere e costruisce un lungometraggio anomalo, visionario, allucinante, in cui la tradizione storica vichinga che fa da sfondo è solo il pretesto per costruire un’immagine lisergica, plumbea, che se ne infischia di compiacere lo spettatore. Lars Von Trier, Herzog e soprattutto il Tarkovskji di Stalker risuonano in questa pellicola, dove Refn si muove tra il mitologico e il fantascientifico.
Suddiviso in cinque parti, e ambientato in un imprecisato medioevo scandinavo, Valhalla rising narra la storia di One eye, guerriero dalla forza sovrumana, indomita, animale, ma pura, e del suo viaggio assieme a dei vichinghi ‘cristiani’ alla ricerca della terra santa. One eye (guercio) è muto, a parlare per lui c’è un ragazzino. Siamo di nuovo davanti all’innocenza della violenza, al rapporto originario tra uomo e natura, e alla corruzione che la religione (cristiana) ha introdotto in questa relazione. Il nostro guerriero viene dall’inferno, o forse dal regno dei morti, è più che umano, quasi un Edipo a Colono; ha delle visioni anticipatrici, da profeta, come Tiresia, virate in un rosso sanguigno, grondante morte, colore questo che ritorna spesso nelle pellicole di Refn (che ha più volte ricordato di essere daltonico).
E poi il viaggio in mare, tra nebbie impenetrabili e i deliri di un equipaggio in ostaggio ad una rotta ignota, fino al raggiungimento di una terra enigmatica, una zona rossa alla Stalker , simile all’ostile paesaggio amazzonico percorso dall’Aguirre-Kinski di Herzog.
La colonizzazione fallisce, perché non c’è nulla da saccheggiare, ma solo lande desolate decorate dai resti dei sacrifici umani offerti dagli aborigeni ai loro dei. Le frecce di pietra scagliate dalle rive uccidono i crociati sulla loro piccola imbarcazione. La bevanda, offerta dal capo missione ai sopravvissuti, provoca un effetto allucinatorio e assistiamo ad una prolungata sequenza in cui il ralenti restituisce l’alterazione della percezione della realtà vissuta dal gruppo, che si produce in gesti deliranti, carichi di simbolismi. Infine il sacrificio: dopo che tutti i crociati sono morti, One eye depone le armi e si lascia percuotere a morte dagli indigeni, che spuntano fuori, come rocce dal fiume, completamenti ricoperti di terra rossa, quasi fossero un tutt’uno con la natura.
Potremmo dilettarci con spassose interpretazioni, tanto per convincerci di aver compreso il sottotesto del film ma, in quest’occasione, è preferibile rimettersi al significante messo in circolo da Refn e lasciarsene attraversare. Questo potrebbe essere il suggerimento per una buona visione.
Luca Biscontini
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