Quand’è che abbiamo smesso di essere figlie ribelli e ci siamo voltate a guardare il tempo passato in conflitto con le nostri madri? Quand’è che abbiamo rinunciato a una carriera brillante per desiderare di avere qualcuno accanto, un appiglio che ci sostenesse mentre andiamo giù, passiamo la notte in bagno a vomitare, soffochiamo e ci cede il terreno sotto i piedi? Quando abbiamo smesso di arrabbiarci con il mondo per imparare ad amare i difetti dell’altro, con il troppo amore scambiato per oppressione e l’altrui personalità forte vissuta come schiacciamento della propria?
Tardi, troppo forse, nel momento in cui siamo passate dall’altra parte della barricata, abbiamo iniziato a sentire il nostro nome scivolare in un generico (eppur mai così proprio) “mamma” e abbiamo finalmente capito cosa s’intende con «la vita è troppo breve». Si è madri e figlie due volte nella vita, lo si diventa e ritorna ciclicamente, come se la vita ricostruisse quel cordone ombelicale reciso alla nascita e strappato più volte con delicatezza o ferocia, fretta o tranquillità.
Mothers and Daughters ci parla di questo, è uno di quei film che capita al momento giusto qualsiasi periodo si stia attraversando. Perché qui dentro c’è la rabbia nei confronti di un genitore che ci sbarra il percorso verso la felicità, c’è la paura di guardarsi allo specchio per non aver saputo amare abbastanza, c’è il destino beffardo che fa sì che le madri abbiano tanti volti, assumano le fattezze rigide e le mani forti di un padre che deve sopperire a una mancanza che forse non si colmerà mai. Ci sono le storie interconnesse di donne che si scoprono forti e fragili allo stesso tempo, toccano con mano lo sgretolarsi delle certezze che per anni avevano creduto salde, il lacerarsi di una corazza di mamma che da piccole sembrava perfetta mentre ora inizia a smagliarsi sotto il peso degli anni e dell’umanità.
Rigby (Selma Blair) è una fotografa di successo che scopre di essere rimasta incinta nel momento in cui il suo compagno l’ha abbandonata per il fare il padre a un altro bimbo. Becca (Christina Ricci) riceve al funerale della madre (in realtà nonna) la notizia di essere figlia di quella che credeva essere sua sorella (Courtney Cox). Layla (Alexandra Daniels) subisce il peso della forte personalità della madre fashion editor (Sharon Stone) e contatta tramite email la genitrice biologica (Mira Sorvino) che non ha mai conosciuto. Nel mezzo c’è la ribellione di Gayle (Eva Amurri), scappata di casa con un amore ritenuto dalla madre (Susan Sarandon, sua mamma nella vita) sbagliato, e il piccolo vicino di casa di Rigby che non crede più a Babbo Natale da quando non gli ha riportato sua mamma dall’ospedale e vive con un padre che prova a donargli la parvenza di una famiglia completa.
A regolare i loro rapporti ci sono le chat, i telefoni che squillano a vuoto nel cuore della notte, le chiamate su FaceTime chiuse nel momento del contraddittorio, a sottolineare come la tecnologia renda asettico ogni contatto e faciliti la spersonalizzazione dei sentimenti più puri. La rabbia e la paura delle figlie irrompe con potenza nelle notti solitarie, quando Layla si confida con l’amica del liceo malata di leucemia, disegna modelli che non vuol far vedere alla madre e contatta la genitrice biologica che per un caso (fin troppo inverosimile in realtà) vive nel suo palazzo e collabora con colei che l’ha adottata. Si fa palese nella solitudine da donna single e forte di Rigby, pronta a recarsi dal medico per abortire salvo poi ripensarci e dar alla luce una bambina che avrà il nome della madre che non la ricorda più. Ma anche la granitica potenza delle madri si sgretola davanti allo scorrere del tempo, con Susan Sarandon che ricorda il nono compleanno della figlia che non vede da due anni, la guarda al di là dello schermo e con gli occhi velati di lacrimi sussurra «life is too short, sweetheart». Il tempo è circolare e si ripete, e quello che per anni abbiamo vissuto come invadenza ci appare ora in tutta la sua amorevole protezione.
La pellicola codiretta da Paul Duddridge e Nigel Levy ha in sé tante di quelle ingenuità da far sorridere, a cominciare dall’innamoramento scontato e prevedibile tra Rigby e il suo ginecologo. Eppure sa far commuovere, tirando fuori le emozioni e i sentimenti nascosti nel nostro animo di madri e/o figlie. Nel finale, a tratti melenso e “ispirato” liberamente alla ben più poetica chiusura di American Beauty, sembra di sfogliare l’album di famiglia, mentre la voce fuori campo della Blair si rivolge a una madre epitome di tutte le altre. Almeno una volta abbiamo desiderato andar via di casa; un miliardo di volte abbiamo giurato a noi stesse che sarebbe finita; per tutta la vita ripeteremo in cuor nostro «Grazie, mamma».
Ginevra Amadio