Sinossi: Maggie, trentenne insegnante di “arte e management”, non ha molto successo in amore ma decide comunque che è arrivato il momento di avere un figlio, anche da sola. Ma quando conosce lo scrittore/antropologo in piena crisi John Harding e se ne innamora, la giovane è costretta a rivedere i suoi piani. A rendere tutto ancora più complicato c’è il fatto che John sia infelicemente sposato con Georgette, una brillante ed egocentrica accademica danese. Passano tre anni e l’amore si spegne. E Maggie si lancia in un ardito piano per far riavvicinare John, che nel frattempo è diventato suo marito, all’ex moglie. Capirà a proprie spese che cercare di deviare il regolare corso del destino spesso possa rivelarsi un boomerang.
Recensione: L’importanza dell’opera di Woody Allen è tale che chiunque decida di ambientare una commedia romantica a New York – a Manhattan per la precisione – finirà, volente o nolente, per rapportarsi con un immaginario, sia emotivo che urbano, codificato in maniera pressoché perfetta ormai più di trent’anni fa. L’originale alleniano è però invecchiato talmente bene che il rischio di uscirsene con qualcosa che nel migliore dei casi non dica nulla di nuovo e, nel peggiore, lo imiti e basta è una possibilità tutt’altro che remota anche per autori piuttosto dotati. Questo per dire di come Il piano di Maggie appaia, sin dalle sue prime battute, come un film senz’altro derivativo, ma una spanna sopra la media.
Merito in primis di uno script (tratto dal romanzo omonimo di Karen Rinaldi) che non si limita a prendere i temi centrali di Io e Annie o di Manhattan per aggiornarli ai tempi degli smartphone ma, di fatto, li rielabora dall’interno, ibridandoli sapientemente con alcune suggestioni più smaccatamente hipster mutuate da autori moderni come Lena Dunham e Noah Baumbach. Da quest’ultimo, in particolare, la regista Rebecca Miller prende in prestito anche la musa ispiratrice (e compagna di vita) Greta Gerwig. Ed è una scelta più che felice. La giovane attrice, da molti additata come la Diane Keaton degli anni dieci, non si limita infatti a interpretare il ruolo di Maggie ma letteralmente lo abita, dando quasi l’impressione di riscriverlo attraverso una recitazione che vive di pause e di tempi comici sempre leggermente sfasati rispetto alla norma, fino a rendere Il piano di Maggie il terzo e ultimo atto di una ‘trilogia dello scompenso emotivo’ iniziata con Frances Ha e proseguita poi con lo splendido e sottovalutato Mistress America. New York a parte, la costante tra le tre opere è la descrizione di personaggi che, mentre vivono, riflettono su ciò che stanno vivendo, dissertando di continuo, non senza una punta di cinismo squisitamente post-moderno, dei sentimenti e della loro ineluttabile provvisorietà. Il risultato è, ça va sans dire, una vita vissuta più da osservatori del proprio destino che non da attori principali.
Quello che però eleva Il piano di Maggie e lo rende qualcosa di più dell’ennesima commedia romantica indie piena di gente che si parla addosso è il modo in cui la Miller risolve il plot principale (l’infatuazione tra Maggie e John) in poco meno di mezzora per poi aprirne subito un altro, più o meno nel punto in cui qualsiasi altro autore farebbe partire i titoli di coda. Ecco allora che la realtà entra e fa disastri, disseminando dubbi e tempi morti in quello che potrebbe essere un lieto fine e, cosa ancora più importante, azzardando una risposta alla più classica delle domande di ogni spettatore cinematografico. “Che fine fanno i protagonisti dopo che si accendono le luci in sala? Continuano davvero ad amarsi e a vivere felici e contenti?”. In linea di massima la risposta dell’autrice è no. Anche perché di amore, ne Il piano di Maggie, ce n’è proprio pochino. I tre personaggi principali ruotano infatti ognuno attorno a un proprio asse egoriferito, lottando costantemente con manie di controllo condannate a rimanere frustrate e la propria incapacità (o anche solo la poca voglia) di venirsi incontro pur di far funzionare un rapporto. Maggie, John e Georgette sono anzi talmente proiettati su loro stessi da non contemplare neanche più l’idea di essere gelosi l’uno dell’altra.
L’impossibilità di amare o di essere amati non è più riconducibile quindi, come nei grandi drammi classici, a un insormontabile ostacolo esterno, ma è il risultato della somma di alcune delle minuscole miserie che albergano in ognuno di noi. In questo lo sguardo della Miller è assai lucido, nonostante eviti in maniera sistematica – ed è questo uno dei pregi maggiori del film – qualsiasi deriva seriosa per continuare a osservare con un misto di tenerezza e simpatia i suoi personaggi mentre affrontano le pieghe inaspettate delle loro vite.
Fabio Giusti