Come nei migliori tesori che si rispettino, lo scrigno di Netflix è talmente ricolmo d’oro da non vergognarsi, ogni tanto, di qualche moneta contraffatta. Dopo quella che a furor di popolo dovrebbe essere acclamata come la miglior serie tv degli ultimi anni (Love) e il preannunciato ritorno in grande stile delle Gilmore Girls, la piattaforma di video streaming ha aumentato gli investimenti in contenuti esclusivi e si prepara a dar vita a serial e pellicole che nulla hanno da invidiare alle grandi produzioni. Eppure, c’è un ma. Un ma grande come le aspettative deluse, come i nomi che hanno fatto da specchietto per le allodole, come le potenzialità non sfruttate che lasciano l’amaro in bocca e la sensazione di volere indietro almeno parte del tempo speso davanti allo schermo. Questo ma si chiama Special Correspondents ed è l’esempio tristemente lampante di come anche nei luoghi dorati possano annidarsi contraddizioni e miraggi.
Non basta aver debuttato al Tribeca Film Festival né avere nel cast, alla sceneggiatura e alla regia quel Ricky Gervais amato dai tempi di The Office. Qui quel che manca è una trama che regga, un costruzione solida che eviti di sgretolarsi dopo l’ennesimo cliché, una comicità capace di andare oltre le risate strappate a situazioni improponibili. Quale sia stato il reale intento di Gervais nel mettere in piedi una simile struttura resterà un mistero: desiderio di spaziare oltre le stand up comedy e le serie da lui scritte? Divertire il pubblico con una serie di situazioni a tratti sconnesse? Non si capisce. Quel che è certo è che lui non è più l’artista che era dieci anni fa, e non basta saper vestire appieno la parte del fallito («il bastardino che nessuno vuole» dirà l’amabile collega) e dar vita a un personaggio riuscito se poi a mancare è tutto il resto. Di certo Eric Bana non ha saputo tendergli la mano, chiuso nella sua perfetta interpretazione ma innegabilmente mancante di qualsiasi tipo di chimica con quella che dovrebbe essere la sua spalla per tutto il film e invece sembra più un compagno di viaggio conosciuto un’ora prima in fila al check-in. Il maldestro tentativo di riportare sullo schermo il già poco apprezzato Envoyés trés spèciaux del 2009 finisce così per seguire la sorte della maggioranza dei remake, relegati a parentesi evitabili e auspicabilmente dimenticabili.
È un peccato però, perché il potenziale di una trama semplice avrebbe potuto essere sfruttato meglio, tanto più che lo stesso Gervais aveva dichiarato di voler dare un’impronta maggiormente satirica e didascalica a un’opera che nella sua versione originale non permetteva di riflettere su tematiche come lo sciacallaggio mediatico. L’intenzione è però condotta in porto solo a metà, grazie soprattutto all’incredibile prova di una Vera Farminga in splendida forma, moglie cinica e arrivista del tecnico del suono Gervais pronta a superare ogni tipo di decenza pur di avere il suo minuto di celebrità. Il resto pare un tentativo goffo e azzoppato di far sorridere inserendo qua e là qualche gag demenziale, raggiungendo l’apice della risata per pietà nella sparatoria con i rapitori. Amareggiante inoltre il mancato ricorso alla genuina vena ironica di America Ferrera, qui relegata a ragazza soprammobile con qualche battuta da rincitrullita completa.
Il cinismo che aveva fatto di Gervais uno dei comici più amati del piccolo e grande schermo cede il passo a una comicità mainstream di cui avremmo fatto volentieri a meno, considerando che per riscattarsi da una costruzione esile e arrancante ci vuole molto più che qualche sprazzo di dialogo ipoteticamente salace. Il finale della pellicola in cui il protagonista parla di “un film a basso costo” suona così essere un’amara verità più che una sottile ironia, nella speranza che il tesoro di re Netflix torni a regalare monete d’oro lasciando scivolare nell’abisso dello streaming un falso d’autore dalla scintillante patina ingannante.
Ginevra Amadio