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Un chiodo nel mio stivale di Daniel Terranegra

Questa vuol essere non solo la recensione di uno spettacolo teatrale, ma anche e molto più la segnalazione di un giovane attore: Daniel Terranegra che, ispirandosi al poeta V. V. Majakovskij, per la regia di Resa Keradman, ha ideato e realizzato lo spettacolo Un chiodo nel mio stivale presso la Sala Uno Teatro (Roma) dal 5 al 7 aprile 2016

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Questa vuol essere non solo la recensione di uno spettacolo teatrale, ma anche e molto più la segnalazione di un giovane attore: Daniel Terranegra che, ispirandosi al poeta V. V. Majakovskij, per la regia di Resa Keradman, ha ideato e realizzato lo spettacolo Un chiodo nel mio stivale presso la Sala Uno Teatro (Roma) dal 5 al 7 aprile 2016.

Qui, allora, vogliamo parlare non solo e non tanto dello spettacolo quanto della performance dell’attore Daniel Terranegra. Infatti lo spettacolo non solo si ispira, ma si rifà ampiamente allo Spettacolo-concerto Majakovskij, portato in scena da Carmelo Bene; spettacolo che ha avuto complessivamente cinque repliche dal 1960 al 1980 e una versione televisiva del 1974 intitolata Quattro modi di morire in versi. I poeti compresi sia nella lettura di Carmelo Bene che in quella di Terranegra sono oltre a Majakovskij, Blok, Esenin e Pasternak. Quindi veniamo a Terranegra. Il lavoro fatto dall’attore lo mette in condizione di smarcarsi abbastanza agilmente sia dal modello “Stanislavskij” (cioè quello dell’immedesimazione) sia dal modello “Brecht” (cioè quello dello straniamento). In verità l’attore entrando ed uscendo dal suo personaggio mette in questione a un tempo l’opera dal punto di vista della vita e la vita dal punto di vista dell’opera senza che si dia possibilità di sintesi tra i due piani come a dire che il senso non va cercato nell’opera, ma molto più nella vita. In questo senso la sua esibizione ha come valore aggiunto questa dimensione etica e politica che possiamo chiamare anche “rivoluzione”. Tuttavia questo termine non rinvia a nessun tipo di discorso ideologico senza con questo cadere nel qualunquismo. Lo spettacolo, infatti, per riprendere alcune affermazioni contenute nella locandina, vuole essere “uno studio sulle possibilità di riproporre concetti poetici e politici che viaggino su di un filo rosso, la rivoluzione – passando attraversando la vita del poeta Majakovskij, le sue avventure, le sue passioni e la sua fede per arrivare ad un mondo nuovo”.

É proprio il caso di ricordare la chiusa de L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica quando alla sempre più diffusa – specie ai giorni nostri – estetizzazione della politica Benjamin contrapponeva la necessità di una politicizzazione dell’estetica. Ma la cosa che di più ci ha colpito di Terranegra è il suo essere un corpo gettato capo e piedi nell’opera come nella vita; un corpo per questo capace col suo entusiasmo di sovvertire non solo la poesia. Non un fine dicitore di versi, bensì un corpo gettato a capofitto nella realtà per mezzo della poesia. Un attore sovversivo più che rivoluzionario, che – a differenza degli attori della chiacchiera – quando sale sul palcoscenico non dimentica il suo corpo in camerino.

Stefano Valente

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