Sinossi: Il 999 è un codice utilizzato dalla polizia per segnalare che un agente è stato colpito in azione. Quando è in atto un 999 tutte le unità convergono all’istante verso il luogo in cui si è verificata l’aggressione e il resto della città resta momentaneamente privo di protezione delle forze dell’ordine. In pratica il diversivo perfetto per chiunque abbia bisogno di tempo per portare a termine una rapina apparentemente impossibile. Come l’ex membro delle Forze Speciali Michael Atwood e la sua banda di poliziotti corrotti al soldo di Irina Vlaslov, mefistofelica moglie di un boss della mafia russa. Il sergente Jeffrey Allen indaga sul caso, ignaro che proprio suo nipote Chris, un onesto poliziotto, sia diventato senza saperlo una pedina fondamentale di questo gioco sporco.
Recensione: Poche storie, Codice 999 è uno di quei polizieschi duri e puri di cui ormai sembra quasi essersi perso lo stampo. Bastano già i primi dieci folgoranti minuti – una rapina dal tasso di adrenalina tendente a infinito con scritto “Michael Mann” su ogni fotogramma – per capire che qui non si scherza affatto. È subito evidente infatti come Hillcoat si riallacci a un’idea di cinema nervoso e virile, tutto dialoghi ridotti all’osso, personaggi tagliati con l’accetta e zero spazio per l’introspezione, che riporta alla mente quegli anni 80 in cui Walter Hill sfornava film uno più bello dell’altro e il politically correct era un concetto ancora ben lungi dal diventare il castrante diktat imperante oggi a Hollywood. Un cinema fatto di brutti ceffi e della totale assenza di qualcosa che assomigli anche lontanamente ad un eroe.
Perché sì, in Codice 999 ci sarà pure una linea di demarcazione tra buoni e cattivi, ma non è affatto detto che, da spettatori, ci si ritrovi poi a fare il tifo per i primi. L’australiano John Hillcoat, messe in standby le lentezze autoriali di The Road, porta avanti con questo film un discorso di riscrittura del genere iniziato quattro anni fa con l’ottimo e sottovalutato Lawless, dimostrando, per l’ennesima volta, come il punto di vista ideale per raccontare l’America sia spesso quello di un non americano.
E lo fa senza alcuna pretesa sociologica alta, ma semplicemente sporcandosi le mani del sangue di un cupo romanzo criminale che, sulle prime, sembra quasi uscito dalla penna di Jim Thompson o di Edward Bunker. Sulle prime perché, a differenza dei maestri, l’autore dello script (il semiesordiente Matt Cook), dopo l’incipit di livello altissimo di cui sopra, si dimostra meno capace nel gestire una parte centrale che indugia forse troppo sulle dinamiche di progressiva perdita della fiducia reciproca all’interno della gang, senza lavorare in maniera adeguata su una tensione che si vorrebbe montante e che invece finisce inesorabilmente col calare per poi deflagrare in un epilogo che mantiene le promesse fatte all’inizio.
C’è da dire però che, se Codice 999 fosse del tutto esente da difetti, adesso staremmo parlando del nuovo Heat – La sfida. E invece, pur non ambendo affatto a farsi caposaldo di chissà quale nuova corrente noir, parliamo di un film fieramente medio, laddove “medio” è però da intendersi nella migliore delle accezioni possibili. Perché, anziché provare a scardinare le regole del film di rapina (i cosiddetti heist movie) vi si adegua con rispetto, lasciando chiaramente intendere allo spettatore che tutto quello che potrebbe andar male ai protagonisti finirà effettivamente con l’andare male, ma riservandosi la possibilità di stupire in merito a quanto possa andar male.
I punti di forza sono, in primis, una regia tesissima che supplisce anche ai (pochi) buchi narrativi e uno dei cast più azzeccati visti ultimamente al cinema, da un Casey Affleck che, tra The Killer Inside Me, Senza santi in paradiso e Il fuoco della vendetta, sembra ormai essere diventato la perfetta incarnazione del loser da romanzo pulp a Woody Harrelson nei panni di un acciaccatissimo poliziotto neanche troppo lontano da quello interpretato lo scorso anno nella pluripremiata prima stagione di True Detective.
Ma sono tutti gli attori a indossare con estrema convinzione gli abiti di questi personaggi uno meno raccomandabile dell’altro. Con una menzione speciale per Kate Winslet, mai meno che immensa e qui alle prese con un ruolo piccolo ma fondamentale per l’intera economia della storia.
Da vedere.
Fabio Giusti