Racchiusa tra le fatidiche date dell’8 settembre 1943 e del 25 aprile 1945, la Guerra di Liberazione in Italia è storia di milioni di esistenze individuali, ma si declina simbolicamente al plurale anche guardando al complesso del movimento della Resistenza, alle sue varie componenti politiche e alle diverse interpretazioni che ne sono state date, al momento e, soprattutto, nel corso dei decenni successivi.
Prodotto dall’associazione Consorzio Sperimentazione Immagine, il documentario R-Esistenze mira anzitutto a restituire la complessità di tale fenomeno storico. Se un ricchissimo dibattito storiografico ha già detto molto sull’argomento, l’attenzione si concentra qui sul valore fondativo che la Resistenza ha avuto per la nostra Repubblica e, di conseguenza, sulle diverse narrazioni che ne sono state date nei settant’anni di storia repubblicana, molto spesso in funzione di precise contingenze politiche.
Il percorso di riflessione – storiografico più che semplicemente storico – proposto dal documentario si sta progressivamente costruendo attorno a una serie di interviste a protagonisti e testimoni diretti, uomini politici, giornalisti e storici. Tra le testimonianze già acquisite, due figure di spicco della Resistenza romana – Rosario Bentivegna, scomparso nel 2012, e Mario Fiorentini – e l’allora giovanissimo militante comunista Aldo Tortorella, futuro ultimo presidente del PCI.
Evento fondativo, dunque, sia come ispirazione, per le forze antifasciste, sia per negazione, per gli sconfitti, i nostalgici e gli aspiranti restauratori. Ma la dialettica sulla Resistenza non si è, ovviamente, fermata alle opposte narrazioni dell’Arco costituzionale e della destra, solo da ultimo maggioritaria nel ventennio della seconda Repubblica.
La declinazione al plurale proposta dal titolo del documentario allude sì alle esperienze individuali dei protagonisti e alle diverse letture date della Guerra di Liberazione, ma pone anche come oggetto di discussione una delle principali connotazioni politiche della Resistenza: il suo carattere di momento unitario, di sforzo condiviso tra comunisti, socialisti, azionisti, cattolici e liberali, proteso alla Liberazione dall’invasore nazista, al ritorno alla democrazia dopo il ventennio di dittatura e alla successiva scrittura condivisa della Costituzione.
Un carattere unitario rivendicato da tutti i principali soggetti politici coinvolti, ma presto messo in discussione dall’avvio della guerra fredda, dalla conseguente estromissione di comunisti e socialisti dal governo e dall’inasprirsi del confronto fra la sinistre e la Democrazia Cristiana nell’infuocata campagna elettorale del 1948. Mentre lo stalinismo si è imposto su tutta l’Europa orientale, più in virtù degli accordi di Yalta che di una violenza politica interna che ne è stata, in definitiva, conseguenza, il decennio del centrismo rappresenta la Guerra di Liberazione principalmente come Secondo Risorgimento nazionale, una guerra patriottica, dunque, prima che politica. Negli stessi anni sono celebrati numerosi processi a partigiani rossi per episodi di rappresaglia o vendetta contro fascisti e collaborazionisti, anche successivi alla conclusione delle ostilità. Episodi che, ben più delle azioni contro l’esercito invasore tedesco o lo stesso apparato di Salò, mostrano le caratteristiche di una “guerra civile”, categoria non a caso riscoperta, sulla base dei medesimi fatti già noti, proprio dalla storiografia revisionista in seconda Repubblica.
La narrazione unitaria della Resistenza si riafferma, del resto, con prepotenza al fatidico tornante del 1960, quando il tentativo di svolta reazionaria del governo Tambroni è contestato dalle piazze antifasciste, screditato dalla sanguinosa repressione delle manifestazioni a Reggio Emilia e in diverse città siciliane, e presto sconfessato dalla stessa Democrazia Cristiana, che apre al ritorno dei socialisti al governo e alla prospettiva di una compiuta realizzazione del dettato sociale della Costituzione. Negli stessi anni, la commedia all’italiana riscopre, non a caso, il racconto della Guerra di Liberazione, accreditandone nell’immaginario popolare il carattere di epopea nazionale, più che di battaglia politica di parte, ma mettendone anche coraggiosamente in luce le promesse di progresso sociale in parte tradite.
Benché dall’opposizione, il PCI è parte attiva del riaffermarsi di tale narrazione, indispensabile corollario del passaggio da forza rivoluzionaria, negli anni della fondazione e della clandestinità, a forza democratica, a partire dalla cosiddettasvolta di Salerno del 1944. Negli anni settanta, la strategia del compromesso storico e l’avvicinamento all’area di governo saranno dunque emblematicamente descritti come “seconda tappa della Rivoluzione democratica” iniziata nel 1943-45 e poi bloccata dalla guerra fredda.
Se le interpretazioni ex-post della Guerra di Liberazione hanno naturalmente contrapposto la destra all’Arco costituzionale e, all’interno di quest’ultimo, le sinistre alla Democrazia Cristiana, il dibattito sul carattere unitario della Resistenza inizia all’interno della sinistra ancor prima dei fatti stessi. Dopo la breve e infruttuosa stagione dei Fronti Popolari e delleBrigate Internazionali, il patto Ribbentrop-Molotov rompe l’unità d’azione fra socialisti e comunisti, ponendo nuovamente in antitesi l’opzione rivoluzionaria e l’opzione antifascista. Un dibattito dottrinale che s’innesta sull’enorme trauma del 1922, con il rimpianto per l’occasione rivoluzionaria fallita nel biennio rosso, da una parte, e il rimorso per non aver saputo fermare l’ascesa del fascismo, dall’altra. Un dibattito che si risolve, di fatto, per il ritorno all’unità d’azione già prima della svolta di Salerno, dato che l’Unione Sovietica combatte ora di nuovo assieme alle democrazie occidentali.
In Italia, il richiamo a una Resistenza patriottica raccoglie, da una parte, forze politiche di vario orientamento, ma non allontana il PCI dalla retorica praticata in guerra dallo stesso Stalin, con grande enfasi sull’aspetto nazionalistico della lotta contro i tedeschi. La strategia togliattiana del “partito nuovo” e della “democrazia progressiva”, tenacemente perseguite sin da allora saranno, d’altra parte, compatibili con la situazione di fatto ancora determinata da Yalta.
La Resistenza è guerra rivoluzionaria solo per determinati gruppi minoritari – si pensi agli anarchici di Bandiera Rossa a Roma – e nelle aspettative di una porzione forse più rilevante delle Brigate Garibaldi e di altre formazioni d’ispirazione comunista. Tale orientamento rimane comunque secondario e residuale rispetto alle ben definite posizioni di vertice, confermate dal successivo corso degli eventi. La linea democratica e legalitaria del PCI pone, di riflesso, la necessità di negare, anche storicamente, ogni connotazione della Resistenza come guerra rivoluzionaria o guerra civile. Una necessità ancor più forte nel momento in cui, dagli inizi degli anni settanta, la svolta armata della sinistra extraparlamentare si richiamerà alla Resistenza e al mancato compimento delle sue premesse rivoluzionarie.
Emblematica sintesi di quest’ultima tendenza, ma anche delle sue contraddizioni da un punto di vista squisitamente storico, è la formazione di Giangiacomo Feltrinelli, i GAP: l’acronimo è lo stesso dei gruppi di guerriglia urbana costituiti dal PCI durante la Guerra di Liberazione, ma diverso è il nome per esteso, da Gruppi d’Azione Patriottica a Gruppi d’Azione Partigiana. Benché le riforme incompiute del primo centro-sinistra non abbiano intaccato la struttura e le storture e del sistema economico italiano, lo scenario sociale e politico dell’Italia industrializzata, e le relative “condizioni rivoluzionarie”, sono, insomma, profondamente diversi da quelli degli anni quaranta.
Accesa da spinte reazionarie, come la strategia della tensione, la violenza politica – e la sua centralità per tutto il corso degli anni settanta – blocca comunque ogni ulteriore elaborazione dell’esperienza storica della Resistenza da parte dei partiti della sinistra, PCI in testa. Il ruolo di mediazione tra la spinta della piazza e le istituzioni – forse in tal senso emblematici sono proprio i fatti del luglio 1960 – si interrompe frattanto nel nuovo contesto di rivoluzione generazionale. Una rivoluzione che assume, anzitutto, nuovi riferimenti politici e ideologici, contrapponendo all’osservanza moscovita del PCI la rivoluzione culturale cinese, e alla burocrazia di partito la pratica dell’insorgenza.
La rivoluzione è un atto di violenza, recita proprio la celebre massima di Mao: anche la Resistenza, nelle sue nobilissime finalità di Liberazione dal nazifascismo, ha praticato la violenza: il racconto degli individui lo testimonia ancora, ma la narrazione politica – vieppiù di fronte alla necessità di sconfessare una nuova violenza, a suo modo rivoluzionaria – ha spesso sfumato tale carattere, enfatizzando, di contro, il valore fondativo di quella lotta per il successivo sistema democratico.
Su questo inevitabile paradosso si accanisce l’offensiva del revisionismo avviata in seconda Repubblica: una lettura storica della Resistenza, volta a evidenziarne errori, contraddizioni e posizioni estremistiche, che si accompagna alla volontà politica di metterne in discussione il frutto più significativo, la Costituzione, sia in termini di equilibrio di poteri, che, soprattutto, di valori fondamentali.
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