Perdizione (Kárhozat, conosciuto anche con il titolo inglese Damnation) è uno dei film più conosciuti del regista ungherese Béla Tarr, distribuito nel 1987. Perdizione è ambientato in un luogo non meglio definito della pianura ungherese tormentato da una pioggia incessante. Il centro del film è il bar Titanik, che suggerisce il tema del naufragio. Girato in bianco e nero con lunghissimi piani-sequenza, fu proprio attraverso quest’opera che Tarr formalizzò per la prima volta lo stile che lo avrebbe reso celebre fra i cinefili di tutto il mondo e che caratterizzerà tutte le sue produzioni successive.
Perdizione è un’opera dal fascino conturbante, ipnotica, con un bianco e nero “acquitrinoso” che non allenta un attimo la presa. I lunghi piani sequenza e la lentezza con cui scorrono le immagini offrono un impatto visivo di originale riconoscibilità stilistica, frutto di un modo del tutto particolare di posizionare la macchina da presa che sembra volersi nascondere, muoversi furtiva tra l’(in)azione di Karrer, lo scroscio di acqua piovana e gli interstizi delle pareti per catturare gli ultimi vagiti di un mondo in stato di sfratto. Come se stesse rubando momenti di ordinario abbandono anzichè preoccuparsi di descriverne l’essenza, guardando di sottecchi la vita immobile di un acquario a cielo aperto. Un film sull’attesa, che il peggio accada o che intervenga qualcosa di risolutivo fa lo stesso, tanto la pioggia che scende a fiumi travolgerà tutto e tutti, inevitabilmente, bagnando ogni lembo di esistenza di questo mondo martoriato dall’egoismo e dal disincanto, non risparmiando proprio nessuno, neanche i “naufraghi” assiepati in quell’ultima oasi di perdizione che è il Titanik (nome banalmente emblematico, diciamolo pure).
La trama “finto noir” è solo un pretesto per dare un minimo di senso all’insensata rappresentazione di una soluzione finale, per immergerci in un universo molto prossimo alla fine dei suoi giorni, dove un’umanità sospesa in una condizione purgatoriale è in attesa del giudizio risolutivo e intanto che aspetta si concede gli ultimi scampoli di gratuita serenità lasciandosi trasportare dal “vortice colorato del divertimento”, come dice la donna che lavora al Titanik (Hedy Tèmessy).”Il ballo ! L’insieme d’armonia di mani, gambe, fianchi e spalle che parlano senza parole. Movimenti. Sguardi. Sollevano chi balla al di sopra delle preoccupazioni terrene”.
Di questa umanità Karrer è il simbolo paradigmatico, l’emblema dell’uomo avvinto dalla forza dirompente della storia, costretto a vagare in cerca di un appiglio sicuro, forte, che lo sottragga dalla necessità di essere abbandonato a se stesso. “Si abbottoni – gli dice ancora la signora del Titanik, una sorta di angelo consigliori – non si può mai sapere con un tempo così umido e piovoso. La nebbia si infila negli angoli e nei polmoni. Si insidia nell’anima”. Una frase che dice tutto (in un film peraltro parco di parole), sulla possibilità di convivere con gli eventi che seguono il proprio corso e sulla difficoltà di sfuggire alla loro natura prevaricatrice. Karrer è ormai insediato da una vita che lo ha ridotto alla solitudine, non gli resta che cullare gli ultimi rantoli di un amore ancora vivo e aspettare di ritornare alla terra che si è fatta fango.