Sinossi: Una storia dei nostri giorni che racconta l’amore sconfinato tra madre e figlio. Il piccolo Jack non sa nulla del mondo ad eccezione della camera singola in cui è nato e cresciuto.
Recensione: Si può dire deludente, dell’ultimo film di Lenny Abrahamson. E lo si dice con rammarico, perché ci sono diverse ragioni per le quali avrebbe potuto essere un bel film. Il regista ha perso l’occasione di sfruttare un soggetto che, essendo particolarmente evocativo dal punto di vista emotivo e dando spazio a una gran quantità di riflessioni, avrebbe potuto essere una miniera.
Il tema di un’esistenza costretta per anni a vivere all’interno di un’unica stanza, senza poter comunicare con l’esterno, il fatto che le vite prigioniere siano due, una che ha già vissuto la sua vita fuori ed è già cosciente di cosa perde, di cosa le manca, mentre l’altra è nata lì dentro, per cui la sua percezione dello spazio non si è mai evoluta, conosce solo quello che abita; il rapporto inevitabilmente diverso dei due con la loro prigione e la relazione tra loro, madre e figlio, figlio dello stupro da parte del suo carceriere; già soltanto questi sono elementi che avrebbero potuto essere sviluppati e approfonditi enormemente, dando luogo a qualcosa di molto interessante. Mentre il regista li circoscrive e a sua volta li costringe in una limitata prima parte, dove non è che non ci provi, in realtà propone diversi elementi piuttosto efficaci ma senza mai soffermarvisi abbastanza, per poi dare spazio a una seconda parte, nella quale ci sarebbero altrettanti aspetti fondamentali, dal punto di vista sia degli eventi, che delle dinamiche psicologiche dei vari personaggi, che vengono messi in tavola tutti insieme in maniera sbrigativa e superficiale, perdendosi tra l’altro in diversi elementi veramente banali, legati prevalentemente alla credibilità, a mio avviso difetto maggiore del film. Ci si riferisce, per esempio, al momento del rilascio del bimbo, che avviene in modo a dir poco improbabile, al fargli esprimere in alcuni punti in cui parla, attraverso la voce fuori campo, delle astrazioni che un bambino di cinque anni non è assolutamente in grado di fare o all’intervista dopo il rilascio, forzata e innaturale. Troppa carne al fuoco. Il risultato è un prodotto inevitabilmente approssimativo.
Di valore, anche se anche questa avrebbe potuto essere sviluppata molto meglio, la rappresentazione dell’ottica in cui è reale soltanto quello che puoi vedere e toccare, mentre il resto non lo è, bella quando viene espressa con il linguaggio di un bimbo di cinque anni, che dà un nome proprio a ogni oggetto, che sviluppa un rapporto affettivo anche con un armadio, un topo, una pianta, un dente marcio, perché sono le uniche cose che ha a disposizione per dare un senso alla sua vita, a dimostrare il fatto che il senso sta dentro il sé, è non fuori.
Interessante anche l’utilizzo della televisione come espediente per dare una spiegazione di tutto ciò che è fuori dalla stanza, come un contenitore di mondi inaccessibili, una specie di paese dei balocchi moderno.
Nonostante tutto, trattandosi di un regista che ha già dato ampia dimostrazione delle sue doti, e avendo scelto come protagonista un bellissimo infante, incredibilmente espressivo e di grandissima presenza scenica, il film regala diversi momenti molto coinvolgenti in cui non è rara la commozione, alternati a scene in cui ci si trova più volte a sorridere. Nell’incremento di popolarità e probabilmente anche dei mezzi a sua disposizione, Abrahamson paradossalmente, o forse neanche tanto, dato che non ne è certo l’unico esempio, perde qualcosa invece di guadagnare.
Il suo lavoro appare molto più apprezzabile ed efficace nell’espressione asciutta e meno immediata che incontriamo in film come Frank o ancora di più in Garage, a testimoniare una sorta di evoluzione all’inverso. I due film precedenti lasciano, infatti, molto più spazio al non detto, alla metafora, alle sensazioni che vengono evocate da situazioni e non vengono raccontate o spiegate, insomma lasciano più spazio allo spettatore, lo fronteggiano alla pari, non sottovalutandolo, probabilmente stimandolo di più.
Roberta Girau