Eterno giovane, enfant prodige e sperimentatore indipendente, Kevin Smith, quello di Clerks, film rivelazione del Sundance Film Festival nell’anno di grazia 1994, si diletta in questo suo ulteriore gioco di celluloide con un film insolito, un divertente e disturbante incubo contemporaneo, un progetto folle e per certi versi assolutamente inusuale, che penetra subdolamente nelle viscere attraverso un incedere cadenzato, che fra il serio e il faceto ci pone davanti agli occhi un incontro/scontro fra due culture confinanti eppure tanto distanti, il Canada e i ben noti Stati Uniti.
In Tusk, horror/comedy narrativamente accattivante, recentemente distribuita in blu ray anche in Italia dopo una pessima distribuzione nelle sale, troviamo il giovane podcast radiofonico Wallace Bryton, interpretato da Justin Long, entrare casualmente in contatto con Howard Howe, il grandissimo caratterista Michael Parks, uno strano vecchio con mille e più avventure da raccontare, perfetto soggetto per il lavoro di Wallace che vive di storie altrui da poter declamare sul web. Teatro del fatidico incontro l’enorme casa di Howard, nelle desolate lande canadesi. Ma chi è veramente questo vecchio e ospitale cantastorie?
Il buon Kevin Smith, in questa torbida vicenda, alterna, mescola, diciamo pure così, momenti estremamente leggeri, tipici di una spudorata commediola yankee, a momenti di pura, spietata enfasi, li centrifuga e li amalgama servendosi di un’ egocentrica perfidia del tutto svincolata da veti produttivi, fattore ben evidente e che se pure in alcuni casi faccia perdere qualcosa in termini di ritmo, in groove, per dirla con linguaggio musicale, ne guadagna certamente in inventiva. Dietro l’incontro/scontro fra il giovane statunitense un po’ arrogante, superficiale, inebetito e il vecchio canadese, ambiguo, tormentato, folle, vi è soltanto abbozzato tutto un mondo culturale e antropologico in cui i due stati vengono rappresentati dalla tipica ironia di Smith; c’è la solita America, sgargiante, estremamente arrogante e il Canada, profondamente schivo, appartato, diciamo pure misantropo, una misantropia espressamente dichiarata ed incastonata nel personaggio interpretato da Michael Parks, un uomo risucchiato dalla sua stessa follia e dalle sue manie, un novello Dottor Frankenstein che vive la sua vecchiaia in un mondo dal quale è rifiutato e che egli stesso rifiuta con pari disgusto, sopravvivendo ai margini con il solo scopo di tornare ad avere un confronto (in)naturale con un frammento della propria giovinezza andata e forse, forse mai realmente avuta.
Un altro dei temi che Tusk abbraccia e al quale si dedica sicuramente con più energia, mai esageratamente sensazionalista, è la mutazione del corpo, la quale diviene un po’ il punto focale del plot, non tanto per l’effetto splatter o gore, non per il sangue versato, sui quali la macchina da presa indugia poco, quanto più per la condizione primordiale nella quale l’uomo viene volutamente reinventato con rude barbarie, (ri)modellato a proprio piacimento, plasmato ad interpretare un animale con estrema accuratezza, uno sdoppiamento nel quale alla fine uno dei due, l’uomo o l’animale, dovrà per forza di cose prevalere, sopraffacendo l’altra parte. Una sorta di cruento spettacolo da baraccone con l’unico scopo di assecondare l’io disturbato del proprio carceriere; in questo senso è doveroso fare un plauso all’ottimo, efficace make-up di Robert Kurtzman.
Se le dinamiche, vittima/carnefice, all’interno della casa, sono così ben stabilite e i due personaggi funzionano alla grande, lo stesso discorso, e ciò è evidente, non vale per gli intermezzi più leggeri che, come già accennato, frammentano la vicenda, spezzettandone il ritmo qua e là e anche quando entra in scena il, pur simpatico, personaggio di Guy Lapointe, strampalato, stropicciato investigatore sulle tracce del folle Howe, interpretato da un divertito, irriconoscibile ma, come al suo solito, troppo gigioneggiante Johnny Depp (non accreditato), la sensazione di buffoneria volutamente cercata, un po’ fine a se stessa, quasi per compiacere le doti camaleontiche dell’attore, diluisce quella sottile tensione così efficacemente creata in precedenza.
Abbastanza palese infine la fonte ispiratrice, il film è una reinterpretazione atipica ed eccessiva del classico L’Isola del Dottor Moreau, che Kevin Smith si diverte a scomporre e sicuramente a ridimensionare, virando il tutto verso un sospinto trash che non è mai veramente trash e non è neanche kitsch, ma è più una roba imperfetta, una roba che un tempo avrebbe avuto gloria nel vecchio circuito delle grindhouse, destinata ad un pubblico desideroso di non prendersi troppo sul serio in una mescolanza di generi senza troppe elucubrazioni. Tusk è una follia, quella follia così ben cucita sul personaggio di Howard Howe, un macabro gioco di celluloide, il quale fra una decina d’anni se le videoteche avranno ancora modo e motivo di esistere proporranno come opera cult da vedere a tutti i costi e che noi in fondo, in fondo apprezziamo per originalità, libertà e anche per quelle evidenti imperfezioni che lo rendono ancor più personale e dichiaratamente un divertissement.
Manuele ‘Bisturi’ Berardi