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Future Film Festival: “The Congress”, per l’omaggio a Ari Folman

Il cineasta israeliano Ari Folman, attesissimo ospite di questa edizione del Future, ha dovuto purtroppo disdire il suo arrivo a Bologna, per gravi problemi famigliari; da parte nostra ne approfittiamo per riproporre alcune considerazioni sul suo ultimo lungometraggio, rivisto ieri al festival, le cui folgoranti intuizioni visive e filosofiche ci avevano impressionato già alla prima visione.

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Uno degli eventi più importanti di questo Future Film Festival era previsto per il 7 maggio, cioè oggi, con l’attesissimo incontro di Ari Folman col pubblico bolognese. Nel pomeriggio il geniale regista israeliano, già autore di Valzer con Bashir e The Congress, avrebbe dovuto presentare il suo nuovo progetto, un ambizioso lungometraggio su Anna Frank realizzato in animazione 2D e fondali 3D, mostrandone anche in anteprima qualche clip. Ma sul festival è caduta una grossa tegola il cui annuncio, dato nelle ultime ore, ha fatto pensare al sottoscritto che in fin dei conti le persone scaramantiche non hanno tutti i torti: questo è il 17° Future Film Festival, dopo tutto. Come per venire incontro alla scaramanzia e a quell’infausta numerazione, l’acclamato cineasta ha fatto sapere di non poter più passare da Bologna e di dover persino rientrare in Israele, abbandonando per un po’ il set londinese sul quale era impegnato, a causa di seri e improvvisi problemi famigliari.

Oltre a quel tanto di giustificata apprensione che una notizia del genere può dare, qui a Bologna c’è ovviamente amarezza per la forzata rinuncia a un incontro che avrebbe di sicuro dato tanto, in termini sia umani che artistici, considerando lo spessore del regista in questione. Giusto ieri vi era stata l’occasione di rivedere in sala quel gioiellino visionario, filosoficamente ardito, che è l’ultimo lungometraggio da lui realizzato finora, The Congress. Ciò mi offre lo spunto per riadattare alla circostanza alcune considerazioni che avevo buttato giù, per qualche altra rivista, all’epoca della sua prima presentazione romana, ma che a una seconda visione continuo a ritenere valide.

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“Ho capito solo dopo aver terminato il film che saranno proprio i più giovani a cogliere l’essenza di The Congress. Sono convinto che le nuove generazioni si troveranno più a loro agio con questa mia storia di fantascienza”: si era espresso così, Ari Folman, durante una delle primissime occasioni in cui il suo più recente lungometraggio, reduce da Cannes dove gli era toccato l’onore di aprire la Quinzaine des Realisateurs, era stato proiettato in Italia. Eppure, nonostante l’interesse destato nel pubblico e in parte della critica, l’impressione era stata sin dall’inizio che The Congress non fosse destinato a bissare l’apprezzamento quasi unanime cui era andato incontro Valzer con Bashir. C’è poco da recriminare o sorprendersi. Col taglio così particolare dato all’interazione tra scene live action e parti animate, questo nuovo lavoro risultava persino più spiazzante del precedente. E il cineasta israeliano pareva esserne consapevole.

Opera seminale come poche, tanto da rievocare quel senso di meraviglia che il nipponico Kazuaki Kiriya, con Kyashan – La rinascita, aveva saputo generare in noi, The Congress si lascia alle spalle (seppur non completamente, considerando l’immaginifica ribellione descritta a metà film) i fantasmi della guerra. Ed è questo un primo segno di rottura, che poteva smorzare l’interesse di chi, anche giustamente, aveva lodato Valzer con Bashir per la sua impronta polemica nei confronti dell’intervento israeliano in Libano, ponendo magari in secondo piano l’utilizzo così poco convenzionale dell’animazione. In quest’ultimo lungometraggio il cortocircuito tra realtà e disegno animato ha quale conseguenza, invece, un caleidoscopico intreccio di riflessioni e intuizioni puramente visive che portano a ragionare sul ruolo dell’attore, sull’evolversi del linguaggio cinematografico, sul progressivo distacco dal mondo reale e su quei contenitori virtuali apparentemente destinati ad assorbire le emozioni della gente, le loro passioni, finanche la loro interazione col resto della società.

Tematiche di un certo spessore, verrebbe da dire, ma non è certo un’anomalia, se si considera che Ari Folman ha liberamente adattato Il congresso di futurologia, romanzo pubblicato nel 1973 dal grande scrittore di fantascienza polacco Stanisław Lem, lo stesso cui si devono opere come Il pianeta morto, Solaris (da cui l’omonimo capolavoro di Andrej Tarkovskij) e Il pianeta del silenzio.

Con uno stile più sobrio e contenuto del solito il cineasta israeliano ci introduce, nella prima parte, al dilemma dell’attrice statunitense Robin Wright (superba nell’impersonare… se stessa), al cui inesorabile declino si sovrappone l’inusuale richiesta avanzata dal proprio agente e dal produttore dei suoi film, rispettivamente Harvey Keitel e Danny Huston: farsi scansionare completamente il corpo e il viso, in modo che un sistema all’avanguardia consenta alla major hollywoodiana, che l’ha sempre avuta sotto contratto, di utilizzare la sua immagine artificiale per tutti i film e le serie televisive a venire, nei vent’anni successivi alla stipula dell’accordo. In virtù del nuovo contratto, all’attrice e ai colleghi coinvolti in questo sbalorditivo esperimento, viene inoltre richiesto di abbandonare completamente la professione; nella versione in carne e ossa, quantomeno. Perché il loro avatar vivrà invece in eterno. Un vero e proprio patto col diavolo! Ma Robin, pur amareggiata e dopo mille dubbi, si decide a firmare, condizionata anche dal cattivo stato di salute del figlio Aaron (in cura presso un otorino, interpretato con la consueta sensibilità da Paul Giamatti, figura che resterà sempre accanto alla famiglia), al quale vorrebbe stare maggiormente vicina. E la scena della scansione rappresenta la prima cesura forte del film. Tra i bagliori metallici e i flash accesi a intermittenza di una impeccabile scenografia Sci-Fi, le ultime resistenze di Robin Wright vengono vinte, a livello psicologico, da un accorato racconto del suo mentore Harvey Keitel: quasi una lezione di storytelling e un malinconico addio al passato che si intrecciano mirabilmente.

The Congress, vent’anni dopo: in un film che fa delle vertiginose ellissi e di altre busche cesure estetiche/narrative uno strumento espressivo di rara intensità, la trasformazione di Robin Wright in cartone animato coincide con quel coloratissimo shock sensoriale, capace di lasciare lo spettatore a bocca aperta. L’arrivo in macchina dell’attrice al futuristico congresso organizzato dalla vecchia produzione cinematografica, per rinnovarle il contratto e annunciare altre importanti innovazioni tecnologiche, satura infatti lo sguardo di immagini psichedeliche dai colori accesi, sgargianti, quasi a rieditare certe fantasie anni ‘60: ci si potrebbe scorgere persino l’ombra dei Beatles, con The Yellow Submarine e altre loro versioni animate. Ma quel timbro tendenzialmente spensierato e naif che caratterizzava tale epoca si trasforma qui in qualcosa di molto più ansiogeno. Del resto per tutto il film Ari Folman si compiace di un citazionismo spregiudicato, che può portarlo a parafrasare Kubrick nell’improbabile saga fantascientifica con protagonista la Robin Wright “virtuale” (vedi la cavalcata della bomba in Dr. Strangelove), come anche a rielaborare determinate suggestioni già presenti nel suo cinema (quei personaggi che ritrovano se stessi, mentre deflagrazioni e altri scenari apocalittici si alternano sullo sfondo, ci hanno fatto persino tornare in mente Clara Hakedosha, promettentissimo lungometraggio d’esordio co-diretto con Ori Sivan nell’ormai lontano 1996). E dal momento in cui sarà sufficiente bere il contenuto di una fialetta per estraniarsi dalla realtà, immergendosi in un universo alternativo dai contorni allucinatori, la percezione della propria vita e le stesse aspirazioni personali muteranno radicalmente, per i protagonisti di The Congress. L’andamento del racconto subirà quindi nuove accelerazioni. Fino alla drammatica scoperta del sempre più accentuato divario tra una presenza concreta nel mondo e quelle realtà illusorie, alla cui origine vi sono determinate proiezioni mentali, percepite però come autentiche; e agli occhi della protagonista Robin Wright il disvelarsi di un simile inganno avrà, oltre alle conseguenze malinconiche che è facile ipotizzare sul piano personale, famigliare, una serie di altre implicazioni tali da apparentare la condizione esistenziale da lei esperita a quella, altrettanto radicale nella dicotomia Virtuale/Reale, già descritta dai fratelli Wachowski in The Matrix.

Stefano Coccia

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