Nel 1965 Marco Bellocchio girava il suo primo film, I pugni in tasca. Il film era bellissimo, anzi resta bellissimo. E drammaturgicamente poi anche perfetto, tanto che in tempi recenti ne è stato tratto anche un copione teatrale ricco di lirismo ed intatto nella sua fedeltà di rivolta. Poi I pugni in tasca non era solo bello, era, ed è, anche formidabilmente importante, quasi un testamento. Il film portava con sé un’aria e una sensualità assoluta di rivolta, ed i tempi, il 1965, nella società italiana non erano ancora così preparati, incazzati, così decisi e svelati.
Ne I pugni in tasca avvertiamo ancora oggi l’idea del capolavoro, proprio “nella misura in cui” il film aveva nella sua grammatica una chiara e netta valenza di preveggenza. Diciamo anche: con la filmografia di Marco Bellocchio, e questo sicuramente con i primi quattro titoli della sua filmografia, I pugni in tasca, 1965, La Cina è vicina, 1967, Nel nome del padre, 1970, Sbatti il mostro in prima pagina, 1972, si riesce a comporre quello che è il clima culturale, politico, religioso, sociale di un’epoca. Esattamente dal boom economico dei primi anni Sessanta e fino alle primissime avvisaglie dei mutamenti dei quadri politici, nei primissimi anni Settanta. Ma andiamo dunque per ordine: innanzitutto quale la necessità, all’epoca intendiamo, di girare un film come I pugni in tasca? Dice Marco Bellocchio:
“La mia necessità dell’epoca era sicuramente quella di voler fare al più presto un film. Capire anche se quella era davvero la mia strada, e vedere anche se ne ero effettivamente capace. Ed ho girato I pugni in tasca.
Come nasce Marco Bellocchio regista, come ricordare il momento ora che sono passati quarant’anni e quale il piacere di Bellocchio giovane verso i generi del cinema?
Dice Marco Bellocchio: “Al tempo amavo moltissimo il grande cinema tradizionale, drammatico, romanzesco. Mi piacevano molto Visconti, Renoir, il cinema provinciale di Antonioni e di Fellini. E della Francia poi ammiravo i primi grandi film della nouvelle vague. In Italia non vi era un movimento simile, ed io cominciavo già a percepire quello che stava diventando lo stato del cinema italiano nel periodo, film stanchi. Persino dagli autori più stimati. Comunque il primo grande desiderio verso il cinemariguardava la possibilità di poter fare l’attore. Marlon Brando, James Dean erano i modelli della mia generazione. Facevo in quegli anni del teatro, poi un difetto di laringe non mi ha permesso di andare avanti. Scelgo di venire a Roma a fare il Centro Sperimentale di Cinematografia e a Roma preferisco i corsi di regia accantonando così l’idea di diventare un attore del cinema…”
I pugni in tasca era un film esclusivo, autonomo, solitario, e veniva, in definitiva, da un autore proveniente dalla provincia più tranquilla, da un autore assolutamente esterno, in fondo, a quello che era il cinema italiano più ufficiale del periodo, neorealismo, commedia all’italiana e film di genere. Tra le sue scene si avvertivano spudoratamente (e qui si grida al fenomeno) quelli che erano i precisi contenuti di rifiuto, anche di una semplice tradizione culturale, di un modo di vedere e percepire la società più immediata. I pugni in tasca, tra le sue liriche, e già nel titolo, con quei pugni ancora costretti nelle tasche ma pronti ad esplodere, già alludeva, in qualche modo, alla rivolta, proprio quella che si sarebbe espressa negli anni immediatamente successivi. Nel 1967 ad esempio (anno in cui Bellocchio firma il suo secondo titolo, il più politicizzato La Cina è vicina) con le primissime avvisaglie in Francia e nel 1968 con i primi movimenti in Italia e nella Germania dell’Ovest.
Dice Marco Bellocchio: “Sicuramente le esperienze personali di quegli anni, come spesso succede, si sono trovate a coincidere con le esperienze più universali, e diventare poi interpreti di un disagio più ampio. Nel periodo vedevo ne I pugni in tasca solo un’esperienza, in verità, un po’ troppo autobiografica, veramente poco attenta alla problematica circostante. In questo senso sottovalutavo certamente il film. Cioè non mi rendevo conto davvero della carica che poi il film, nei fatti, ha dimostrato di avere”..
Una carica che poi ha offerto il destro al cinema italiano favorendo la produzione di altri film nel periodo. Non vi è dubbio ad esempio che i debutti nel cinema di Salvatore Samperi conGrazie zia e quello di Roberto Faenza con Escalation si devono alla forza trainante di un film come IPugni in tasca. Ma noi oggi restiamo quelli assolutamente in controtendenza perché pensiamo, ad esempio, pur riconoscendo naturalmente a I pugni in tasca il valore assoluto del capolavoro, a titoli come Sbatti il mostro in prima pagina, uno dei migliori film di Marco Bellocchio, proprio insieme a Marcia trionfale, 1976, e a Diavolo in corpo, 1986. Forse perché è in questi tre titoli che troviamo, davvero svelato e netto, quello che veramente chiediamo ad un buon film, semplicemente lo spettacolo più preciso, diretto e senza preamboli. Preamboli che spesso possono avere il valore dell’artificio.
Sbatti il mostro in prima pagina è un titolo che lo stesso Bellocchio, come buona parte della critica più ufficiale, non ritiene tra le cose più giuste che ha fatto. In realtà, Sbatti il mostro in prima pagina ha descritto una situazione sociale, il discredito della sinistra extraparlamentare, e lo ha fatto in maniera assolutamente precisa, chiarendone in fondo e a largo conflitto gli aspetti più oscuri, anche perché ambientato nel tessuto realistico delle giornate immediatamente prima le elezioni politiche dell’11 maggio. La cronaca, quella più immediata, invero era l’effettiva protagonista.
Marcia trionfale poi lo abbiamo amato soprattutto per un nostro vezzo senz’altro audace, ma ispirato. La vita in caserma di Bellocchio all’epoca la trovavamo “spudoratamente” stupenda perché, e lo giuriamo, c’è sembrato più ispirato, nella simpatia naturalmente, a pellicole quali Patrocloo e il soldato Camillone, grande grosso e frescone, 1973, Mariano Laurenti e da Il colonnello Buttiglione diventa generale, 1974, Mino Guerrini che non, piuttosto, come la statura dell’autore faceva pensare, a La collina del disonore, 1961, di Sidney Lumet, o a E Johnny prese il fucile, 1971, di Dalton Trumbo.
Marcia trionfale si portò comunque dietro, per molto tempo, un’accusa, quella che tra il film e la realtà nelle caserme non vi era nessuna aderenza. E Marco Bellocchio sull’accusa si è sempre difeso sostenendo che il suo film era una storia, e la caserma solo un’istituzione come tante, come poteva essere una scuola o un manicomio. D’altra parte il film non era assolutamente un film militante, come invece poco prima lo era stato appunto Matti da slegare, e forse da questo dato nasceva l’equivoco. In Marcia trionfale c’erano tutti in fila gli ingredienti dell’industria del cinema: un produttore, un circuito ufficiale di distribuzione, una scelta accurata dei manifesti pubblicitari, uno slogan preciso per cui il film andava visto e, in ultima analisi, attori alla moda, Franco Nero, Michele Placido, Miou Miou, Patrick Dewaere.
E Diavolo in corpo? Non neghiamo che con Diavolo in corpo ha funzionato, preciso come un orologio, il forte richiamo pubblicitario creato intorno alla scena della fellatio, che la Maruska Detmers pratica con estrema intensità e buon realismo al bravo Federico Pitzalis. Questo è stato, senz’altro, il viatico perfetto al successo popolare del film. Nel periodo si diceva che per girare questa scena tutta la troupe fu costretta ad abbandonare il proscenio, onde facilitare ai due attori la massima comprensione tra loro e la massima concentrazione. Bellocchio pensava, in qualche maniera, alla possibilità di far nascere tra la Detmers ed il Pitzalis una possibile verità di confidenze.
Dice Marco Bellocchio: “Mi ero posto davvero, durante la lavorazione di Diavolo in corpo, di capire nel profondo la situazione più idonea per rappresentare le scene amorose. Le volevo semplicemente solo più vere e poetiche”.
E con Diavolo in corpo inizia un momento davvero diverso in cui Bellocchio sperimenta un percorso di cinema utilizzando la consulenza nella sceneggiatura e sul set di un medico psichiatra come il dottor Massimo Fagioli. Bellocchio chiamerà questo tentativo “un’ipotesi di cinema finalmente completa”. La visione del sabba, 1987, e Il sogno della farfalla, 1994, sono i momenti decisivi di tale esperienza che durerà con i dinieghi e i risentimenti più netti, tutto sommato, della critica più ufficiale e, finanche, dalle produzioni degli stessi film, non sempre in linea con le idee di Marco Bellocchio e di Massimo Fagioli.
Diavolo in corpo è, senza meno, il film più spettacolare girato da Bellocchio sui temi della follia e sui temi della lotta armata Buongiorno notte, 2003, ad esempio, è un titolo culmine sul genere, e pone davvero un excursus sul caso Moro. In parallelo, e a ben guardare, Diavolo in corpo poi è anche un film sulla normalità del conformismo, anzi sulla mediocrità assoluta del conformismo, che Bellocchio esprime dentro una condizione di riferimento: la borghesia. Il tema della follia, e della normale follia, è sempre stato presente quasi in tutte le opere di Bellocchio, anzi a ben guardare è la tematica più urgente e sentita, insieme a quella sulla lotta armata.
Già con I pugni in tasca Bellocchio aveva anticipato quello che era, in qualche maniera, il tema della follia raccolto in un contesto borghese. Poi con Matti da slegare, girato nel 1975 in una condizione di co-regia, e in una condizione produttiva di film militante, insieme a Silvano Agosti, Stefano Rulli e Sandro Petraglia e proprio per il metodo adottato, proprio di negazione dello spettacolo, un manifesto a sostegno della tesi dello psichiatra Franco Basaglia, uno studio deciso per finalizzare il reinserimento sociale del malato di mente, “del matto”. In questo senso Matti da slegare (ed era uno dei tanti punti forza del film) tendeva ad ideologizzare e a istituzionalizzare la materia della follia.
Poi con Salto nel vuoto, 1980, Gli occhi, la bocca, 1982, La visione del sabba, il coinvolgimento sul tema della follia è stato netto. Persino in Marcia trionfale in qualche maniera, un soggetto solo in apparenza più lontano dal tema, lo spettro della follia adombrava comunque in caserma tra le sembianze del capitano Asciutto e in Vincere poi, uno degli ultimi essenziali titoli di Bellocchio, la follia che accompagna i comportamenti del dittatore Benito Mussolini è piuttosto palese. E quando Bellocchio ricorre a Luigi Pirandello con le versioni dell’Enrico IV, 1984 e de La balia, 1999, e a Heinrich Von Kleist per Il principe di Homburg, 1997, non smette di trattare il segmento della follia come un margine essenziale alla più diversa umanità.
Marco Bellocchio segna quello che è un po’ un ritorno sui suoi passi con L’ultimo vampiro, che lo fa tornare ad un suo film precedente, La visione del sabba. Un film, forse, se vogliamo riconoscergli un perché, non proprio completo nella sua elegante e professorale ricerca (La visione del sabba un titolo del tempo in cui Bellocchio collaborava attivamente con lo psicologo Massimo Fagioli). L’ultimo vampiro è il ritorno sulle tradizioni arcaiche, anche sulle feroci credenze popolari, girato in un cerchio provinciale, a Bobbio, luogo dell’infanzia e della prima adolescenza del regista.
Bellocchio ormai con una certa periodicità ama tornare con il suo cinema nei luoghi della gioventù e dei ricordi. Lo ha già fatto con Vacanze in Val Trebbia, 1980, e con Sorelle Mai, 2010. Bobbio, ormai da qualche tempo, è anche sede del suo laboratorio “Farecinema”, dove ogni estate Bellocchio tiene i suoi corsi di regia e di recitazione. L’ultimo vampiro è la ricostruzione, pare, di una storia o forse di una leggenda, quindi capitata o raccontata nella cittadina di Bobbio, finita assolutamente in tragedia.
Marco Bellocchio sarà ospite della serata finale del festival BAFF venerdì 21 aprile
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