Dal regista de “La sposa turca” un inaspettato e immobile affresco del primo genocidio della storia moderna
Sinossi: Mardin, 1915: una notte la polizia turca rastrella tutti gli uomini armeni della città, compreso il giovane fabbro Nazaret Manoogian, separandolo dalla sua famiglia. Anni dopo, sopravvissuto agli orrori del genocidio, Nazaret riceve la notizia che anche le sue due figlie sono ancora vive. Ossessionato dall’idea di ritrovarle si mette sulle loro tracce. La sua ricerca lo conduce dai deserti della Mesopotamia all’Avana, fino ad arrivare alle praterie aride e desolate del Nord Dakota. Nel corso della sua odissea incontra una serie di personaggi molto diversi fra loro: figure angeliche e generose, ma anche l’incarnazione del diavolo.
Recensione: “Medz Yeghern” – “Grande Crimine”: è così che il popolo armeno definisce una delle pagine più sanguinarie della storia, quella che li ha visti vittime a più riprese dello sterminio dei turchi.
Iniziato nel 1894-1896 con la campagna condotta dal sultano ottomano Abdul-Hamid II, il “Grande Crimine” è poi continuato in un secondo momento con la deportazione e l’eliminazione di buona parte del popolo armeno nel 1915-1916, sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale.
Considerato il progetto politico principale dei Giovani Turchi, quello cioè di creare uno Stato nazionale turco etnicamente omogeneo, la maggior parte degli studiosi è attualmente concorde nel definire quello realizzato ai danni degli armeni come il “primo genocidio della storia moderna”. Come tale, nel 1985, fu poi riconosciuto dalla sottocommissione dei diritti umani dell’ONU, e due anni dopo dal Parlamento Europeo.
Nonostante questo, interessi politici in primis, ma anche ideologico-culturali, hanno condotto alla creazione di quella che potremmo definire la “questione armena”: così, alcuni studiosi continuano a negare l’esistenza di un progetto di sterminio, adducendo diverse e fumose teorie, e lo stesso governo turco tuttora punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni il semplice fatto di nominare in pubblico il genocidio del popolo armeno (“vilipendio dell’identità nazionale”).
Ciò detto, fa riflettere innanzitutto il fatto che a portare sul grande schermo e alla rinnovata attenzione dell’opinione pubblica questa vicenda di massacri e deportazioni sia proprio Fatih Akin, regista tedesco nato ad Amburgo da genitori di origine turca figli del flusso emigratorio consequenziale al cosiddetto “Patto di reclutamento turco-tedesco” del 1961.
D’altronde Akin già con “La sposa turca” aveva dimostrato di saper affrontare tematiche delicate e scottanti con occhio nuovo e privo di retorica.
Tornando a noi, Il padre: il film, come si legge nella sinossi ufficiale, prende le mosse dalle vicende di Nazaret, protagonista dal nome evocativo e simbolo di due storie, quella Individuale e quella Universale.
Seguiamo quindi il giovane fabbro, interpretato dal francese Tahar Rahim (Il profeta), mentre viene rapito agli affetti familiari, mentre viene derubato degli averi, della fede, della dignità umana, finanche di se stesso nel momento in cui perde l’uso della parola. Lo seguiamo, attraverso il giallo prepotente del deserto turco, mentre insperatamente riesce a sopravvivere prima, a salvarsi poi. Siamo ancora con lui quando, miracolosamente scampato al genocidio, inizia l’interminabile pellegrinaggio alla ricerca delle figlie.
Purtroppo, mi duole ammetterlo, come il pellegrinaggio anche il film risulta interminabile!
L’antiretorica e l’originalità per cui ricordavamo il regista de “La sposa turca” o “Soul Kitchen” si sono qui involute in classica epicità e addirittura scontatezza. L’Akin che ci aspettavamo, l’avido e irriverente cantore della vita, scrupoloso pittore di personaggi sui generis, qui soccombe. Decide di tacere di fronte alla Storia: decide di studiarla e renderla come farebbe un libro o un vecchio e magniloquente kolossal.
Una sceneggiatura rigida e fin troppo programmatica mal sorregge i 138 lunghi minuti di durata del film.
In definitiva, un’opera didascalica, itinerante ma ferma nel sua volontà di diventare un imperituro affresco scolpito nella memoria: un diktat, sembrerebbe, a ‘non dimenticare’.
Il film, (dal titolo originale “The Cut”), si situa inoltre a chiusura della trilogia sull’Amore, la Morte e Satana firmata dal regista turco-tedesco.
A questo proposito, è Akin stesso a parlare: “Per me era chiaro che c’è un diavolo in ognuno di noi e per ritrarlo non hai bisogno di girare un horror o un film sul satanismo. Gli esseri umani sono in grado di amare, come vediamo in “La Sposa Turca”. Nel film “Ai Confini del Paradiso”, la morte innesca una metamorfosi. “Il padre” affronta l’omicidio di massa e la paura di confrontarsi con esso. Si potrebbe pensare che questo film vada in una direzione diversa dalle prime due parti della trilogia. Ma ogni film di fatto è la prosecuzione del precedente. Cahit, Nejat e Nazaret sono come tre fratelli, che osservano attentamente il mondo intorno a loro e perseguono i loro obiettivi”.
Detto questo, purtroppo, questa volta sembra essere Fatih Akin a non aver raggiunto i suoi obiettivi: il film non commuove, manca di creare un vero filo empatico con lo spettatore e infine non fornisce i necessari strumenti informativi atti a comprendere la realtà storica nella sua interezza.
Dalila Lensi