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Luci e Ombre

Suite francese

Ci sono due diversi modi per vedere Suite francese di Saul Dibb: dipendono dalla nostra conoscenza dell’opera di Irène Némirovski da cui è tratto il film, non per stanare, al solito, differenze, aggiunte e sottrazioni tra il linguaggio letterario e quello filmico. Affatto. Ma per il coinvolgimento emozionale con cui si entra al cinema, la motivazione che ci ha portati lì, l’attesa intercorsa tra l’annuncio della sua lavorazione (circa due anni fa) alla visione, finalmente.

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Ci sono due diversi modi per vedere Suite francese di Saul Dibb: dipendono dalla nostra conoscenza dell’opera di Irène Némirovski da cui è tratto il film, non per stanare, al solito,  differenze, aggiunte e sottrazioni tra il linguaggio letterario e quello filmico. Affatto. Ma per il coinvolgimento emozionale con cui si entra al cinema, la motivazione che ci ha portati lì, l’attesa intercorsa tra l’annuncio della sua lavorazione (circa due anni fa)  alla visione, finalmente.

Consapevoli che nessun regista potrebbe rendere appieno la complessità della scrittura della Némirovski, e concludere, rispettandolo, un capolavoro rimasto inconcluso, chi l’ha amata già si accontenterebbe dell’omaggio che le viene fatto, dopo undici anni dalla pubblicazione e ben settantaquattro dalla stesura del romanzo. Preferirebbe quasi non sapere la storia, e goderne in maniera innocente, scoprirla per la prima volta, anche se sa che, per forza di cose, sarà resa più semplice.

Suite francese viene scritto nel ‘41/42 e narra i fatti del 1940 in due diverse vicende. La prima vede la fuga dei parigini per l’occupazione tedesca, verso i villaggi vicini alla capitale (Tempesta di giugno); la seconda (Dolce), è la storia d’amore appassionante tra una giovane donna francese, Lucile, e un ufficiale tedesco, Bruno, che è poi la trama del film. C’è un esile continuità tra i personaggi dei due libri, che nel film non compare, ma che era stato immaginato solo come l’inizio di altri intrecci, nell’insieme di cinque opere connesse e interrotte brutalmente dalla morte dell’autrice. Sognava di scrivere, Irene Nermirovski, in una sorta di sinfonia, ben mille pagine:

« Il libro in sé deve dare l’impressione di essere semplicemente un episodio… com’è in realtà la nostra epoca, e indubbiamente tutte le epoche. La forma, dunque… ma dovrei dire piuttosto il ritmo: il ritmo in senso cinematografico. Se conoscessi meglio la musica, credo che questo potrebbe aiutarmi. In mancanza della musica, quello che al cinema si chiama ritmo. Insomma, preoccuparsi da una parte della varietà e dall’altra dell’armonia. Nel cinema un film deve avere una unità, un tono, uno stile.”

Ritmo e musica sono avvincenti nel film di Saul Dibb, a riempire i silenzi inevitabili di un amore impossibile, i palpiti del cuore di lei (Michelle Williams), mentre osserva lui (Matthias Schoenaerts) che suona il piano, dalla porta socchiusa; di lui che ha invece  lo sguardo più diretto ad esprimere sincerità e chiedere fiducia.  I trasalimenti, le parole non dette, l’incredulità. La dolcezza (il titolo del romanzo è Dolce, infatti), l’intensità con cui Lucile tocca lo spartito della sinfonia scritta da Bruno, a sublimare le carezze che vorrebbero posarsi sul corpo tanto desiderato. Nel villaggio e nella casa di Bussy dove Lucile è stata costretta ad ospitare Bruno, nel buio assoluto della guerra, ma anche dell’anima, la loro intesa sembra allontanare le ombre, rischiarare la vita e dare ancora un po’ di speranza.

suite francese manoscritto

Lucile è una donna succube della suocera, la quale odia giustamente il nemico, che non esiterebbe ad ucciderle il figlio, ora al fronte, ma a parte questo è sempre fredda, svalutante, insensibile alle richieste dei suoi sottoposti ridotti in miseria. Saul Dibb l’ha ingentilita verso la fine, la Némirovski no, a sottolineare invece l’umanità di Lucile che riesce ad esprimere solo a tratti, e che poi esplode grazie alla relazione amorosa. Nel corso di questi pochi mesi da remissiva impara a rischiare, a fare scelte coraggiose, a stare dalla parte di chi è  più debole, in una crescita psicologica che coinvolge anche la sfida all’autorità. E’ troppo mite Lucile all’inizio del film, ma l’attrazione per il nemico la trasforma in una sorta di Antigone per cui le ragioni del cuore valgono più di quelle del potere.

Solo nella guerra si conoscono davvero le persone, si dice nel libro e nel film; lo sguardo della Némirovski è impietoso, sia nel primo che nel secondo romanzo. Durante l’esodo dei parigini, i personaggi vengono descritti nelle loro manie e piccinerie che neppure il disastro è in grado di smorzare. Riserva benevolenza solo ad una coppia di mezz’età, Maurice e Jeanne Michaud, che guarda caso ritornano, citati, in Dolce, a creare quel legame di cui si parlava.  Resistere, attendere, sperare è la massima di lui. Non ci sono nel film, perché non si potevano condensare ben due romanzi, ma resistere attendere sperare è quello che fanno gli abitanti di Bussy, mentre le ragazze sono attratte dal fisico aitante e dall’allegria dei soldati, il sindaco cerca di scamparla corrompendo i tedeschi, e addirittura Lucile e Bruno si innamorano.

I buoni e i cattivi ci sono da una parte e dall’altra, e non stupirebbe se non si sa che il racconto è quasi contemporaneo ai fatti e che la Némirovski finirà la sua vita per colpa dell’insensatezza delle leggi razziali. Questa è la sua grandezza: il coraggio di rappresentare anche i francesi nelle loro bassezze e tra i tedeschi un’anima sensibile come Bruno. Così come descrisse alcuni ebrei, nei romanzi precedenti, prendendo spunto tra le sue conoscenze, cogliendone l’aridità; così come ha inserito nelle sue storie figure materne anaffettive (Il ballo, soprattutto) a pareggiare i conti con una madre altrettanto anaffettiva. Una scrittura terapeutica la sua, di riscatto, ma lucida nell’affresco delle piccole e grandi manifestazioni esistenziali.

Commuove di più, il film, dopo aver letto l’appendice del libro: ci sono i progetti di Irène per la stesura dei cinque romanzi,  la corrispondenza con il suo editore e quella frenetica del marito con lo stesso editore ed altre persone influenti nel tentativo inutile di salvarla (sarà deportato anche lui tre mesi dopo). Commuove di più conoscere la sorte delle due figlie, Elisabeth e Denise, affidate ad una governante che per anni le ha nascoste ovunque, loro e la valigia contenente il manoscritto di Suite francese. E commuove fino alle lacrime sapere che Denise ha aperto il quaderno solo sessant’anni dopo pensando si trattasse di un diario e non avendo avuto fino ad allora la forza di leggerlo (lo ha copiato pazientemente, chissà con quanto amore, e fatto stampare poi nel 2004). Denise è morta due anni fa, e l’omaggio del film è rivolto anche a lei e alle sue parole:

È una sensazione straordinaria quella di aver riportato in vita mia madre.
Dimostra che i nazisti non sono veramente riusciti ad ucciderla.
Non è vendetta la mia, ma è una vittoria(Denise Epstein Némirovski)

Margherita Fratantonio

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