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Interviews

Intervista a Marco Martani

L’estate è finita da un pezzo e cerco di incastrare la mia vita-scrittura-cinema tra la tesi di dottorato da finire, i professori alle calcagna, il lavoro per la scuola di Sentieri Selvaggi…

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L’estate è finita da un pezzo e cerco di incastrare la mia vita-scrittura-cinema tra la tesi di dottorato da finire, i professori alle calcagna, il lavoro per la scuola di Sentieri Selvaggi… Esco di corsa, in mezz’ora di mezzi pubblici sono all’appuntamento. È in un edificio che confina con la tangenziale. Cemento armato: non c’è confine tra l’occhio dentro e l’occhio fuori…
Marco Martani è sulla porta, ci siamo conosciuti un mese prima. Iniziamo subito a chiacchierare, nonostante residui irriducibili di connaturata riservatezza. Sfogliamo insieme Taxi Drivers. Sorride, ha lo sguardo profondo e vivace. Parla di sceneggiature che gli sono rimaste “qui” facendo il gesto di chi si tocca la gola, e dice: “Questo voglio vedere come lo scrivi!”. Racconta esperienze e riflessioni, comunica idee e amore per il cinema in un modo così immediato che è impossibile per me non entrare in sintonia. Ci salutiamo dopo un’ora, e magari ci rivediamo. Fuori, questa città è più motion picture del solito.

Come sei diventato sceneggiatore?

Sono passato dalla critica cinematografica. Scrivevo di cinema per conto mio, mentre frequentavo l’Università; poi ho iniziato a pubblicare, ma a lungo andare la cosa mi frustrava un po’. Allora ho pensato di scrivere storie e così ho iniziato sperimentando nei teatri off romani con Fausto Brizzi, che avevo conosciuto all’Università facendo teatro popolare, comico, ma sempre strutturato, mai cabaret. Scrivevamo storie, le portavamo in scena, vedevamo se funzionavano: il ritorno del pubblico ci consentiva di mettere alla prova ciò che scrivevamo. Lì è cominciata la nostra sensibilità nella scrittura. E siamo sempre stati decisamente strutturalisti, in controtendenza, quindi, rispetto all’insegnamento classico del cinema in Italia, secondo cui la sceneggiatura non ha un ruolo fondamentale. Secondo me, invece, non si può prescindere da una sceneggiatura che funziona. Chi si sentiva soprattutto regista e autore si metteva sul set anche se lo script non funzionava, magari improvvisando, perché anche così si possono ottenere buoni risultati, ma in realtà è sempre casuale. Con il primo corso Script Rai, era il 1995, abbiamo approfondito l’elemento strutturale e popolare come meccanismo di scrittura che costituisca un ‘gancio’ per il pubblico. Lì molti sceneggiatori, sia giovani che affermati, non erano d’accordo con il metodo americano, lo consideravano banale. Io credo che quando conosci le regole le personalizzi; se le bypassi, puoi funzionare o meno. La ‘struttura’ è diventata fonte di lavoro quando abbiamo iniziato a scrivere per la tv: paletti di tempi, di soldi, di possibilità visive. Lì abbiamo cominciato davvero a fare gli sceneggiatori, con risultati alterni. Poi, nel 1999, è arrivata la collaborazione con Neri Parenti che ci ha dato la possibilità di fare esperienza di scrittura entrando come ingranaggi all’interno di una ‘macchina’ che già esisteva e funzionava. Con Parenti abbiamo costruito un elemento strutturale di fondo, fatto di intreccio, ritmo, trame, chiusure, che poi ha funzionato anche per il pubblico. In Italia raramente capita di scrivere un film all’anno, vedere come va, e poter fare di meglio con il successivo. Molti, ovviamente, dicevano: “Orrore!” (ride).

Cosa ti ha spinto a passare alla regia?

È successo in maniera naturale. Ho sempre pensato che mi sarebbe piaciuto fare il regista, ma non avevo il ‘sacro fuoco’. Sono uno sceneggiatore e questa è la mia forza, il mio mestiere ed è proprio questo che mi ha permesso di sviluppare dei progetti in cui credo, passando ad un linguaggio che mi piace di più della commedia, come il noir, il thriller, che sono linguaggi che consentono di sperimentare un certo tipo di visione, molto più vicina a ciò che mi piace come spettatore. La commedia, invece, deve essere immediata.
Abbiamo scritto sempre cose diverse dalla commedia popolare, e non sempre siamo riusciti a realizzarle perché in tv non funzionavano o perché il cinema di genere in Italia è una nicchia. Dietro Cemento armato, quindi, non c’è un discorso autoriale. Molti film italiani ‘di genere’ non mi sono piaciuti proprio perché lo sguardo dell’autore era troppo ingombrante, messo in mostra, forzatamente alternativo. All’opposto, perché il regista si vergognava a far saltare il pubblico sulla sedia, perché si pensa che sia facile, come si pensa che sia facile far ridere. L’idea era fare un film che potesse piacere al pubblico dall’inizio alla fine. Se posso anticipare tutto che ci vado a fare al cinema? Abbiamo giocato una carta rischiosa: Cemento armato non è proprio poliziesco, né noir, né western metropolitano. Questo è stato un elemento destabilizzante, perché si trattava di un film molto preciso, ma non facilmente classificabile. Molti l’hanno visto come un’operazione troppo sofisticata: passare dalla commedia ad un altro genere, usare un cast riconoscibile, pensa al passato di Faletti, e alla difficoltà di dare vita a quel personaggio senza creare il cliché del cattivo sopra le righe. Alla fine il film, come raramente capita da anni a questa parte in Italia, è stato di rottura: odiato, oppure amato alla follia.

Come hai ‘guardato’ la città di Roma?

Dal punto di vista esclusivamente estetico. Una visione da non-romano su una grande città. Si è trattato di scelte visuali di posti: volevo contrapporre il cemento armato ‘cattivo’ ad una periferia bella, ‘paesana’, dove c’è una visione della vita un po’ più a misura d’uomo. È solo un’ambientazione, perché non ho mai voluto fare un discorso realistico o semidocumentaristico. Poteva essere Berlino o Parigi e, infatti, i buyer stranieri lo hanno apprezzato, senza che fosse necessario riconoscere la città.

Quindi Cemento armato andrà all’estero?

Il Sundance Film Festival e Berlino ci hanno richiesto il DVD per la selezione. Non si fermerà al mercato italiano. Il mercato estero è più ricettivo, e i buyer stranieri che lo hanno visto mi hanno chiesto di contattarli per possibili co-produzioni. Forse perché l’approccio non è ‘due camere e cucina’, né tantomeno autoriale, ma è un film che è stato girato, sebbene con pochi soldi, per essere spettacolare.

Se avessi possibilità di scelte illimitate, con quale regista vorresti lavorare?

Sono onnivoro, perciò la domanda è difficile. Carpenter o Johnnie To che fa cinquanta film in quindici anni. Vorrei lavorare con lui per capire come fa a gestire il tutto! All’opposto, con qualcuno che ci mette cinque anni a fare un film per curarlo in ogni dettaglio. Friedkin, nel bene e nel male, non ha mai fatto qualcosa che lasciasse indifferenti. Mi piacciono i fratelli Coen, anche loro hanno alti e bassi, ma sono registi, produttori, sceneggiatori, e sono anche molto produttivi: tanti film diversi e per questo motivo sarebbe interessante capire qual è la chiave della loro creatività.

Di recente, Laura Morante ha dichiarato che per farsi ascoltare da un produttore bisogna parlargli necessariamente di liceali. Che ne pensi?

Sono colpevole (ride)! Non abbiamo a che fare con una scienza esatta, ma quando parli ad un produttore dopo che Notte prima degli esami ha fatto tutti quei soldi è normale che il produttore pensi che queste cose funzionino, e quindi è più facile che ti presti attenzione. Pensa al western o alla commedia sexy …

Che progetti hai per il futuro?

Il mio sogno è fare film popolari uno dietro l’altro, mantenere vivo un discorso di cinema di intrattenimento. Non voglio fare film d’autore, né dare la mia visione su un genere. Voglio fare film per il pubblico, che raccontino storie. Sto lavorando alla nuova commedia di Fausto Brizzi. E poi c’è La notte di Peter Pan, tratto da un romanzo di Piero Degli Antoni, un thriller claustrofobico con tre personaggi – due uomini e un bambino – in una villa isolata su una scogliera. Ambientazione (quasi) unica. Il thriller è un genere puro. Lì non c’è scampo…

Annarita Guidi

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