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Trieste Film Festival: Warsaw 44 di Jan Komasa

Uno spettacolare kolossal polacco sull’Insurrezione di Varsavia ha caratterizzato la serata di chiusura del Trieste Film Festival.

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Varsavia messa a ferro e fuoco, nella serata conclusiva del Trieste Film Festival. Al termine della cerimonia di premiazione è stato infatti proiettato, quale film di chiusura, lo spettacolare e coinvolgente Warsaw 44 (titolo originale polacco: Miasto 44) di Jan Komasa. Una tale produzione cinematografica, che si è persino avvalsa di alcuni tra i migliori esperti di effetti speciali attivi a Hollywood, figura molto probabilmente come la più impegnativa ed economicamente dispendiosa mai realizzata in Polonia. Del resto il lungometraggio è uscito nel 2014, quando vi era da celebrare un anniversario solenne e terribile: i settant’anni trascorsi dalla Rivolta di Varsavia. E in prossimità di questa ricorrenza i polacchi hanno prodotto anche altre opere, che ricordassero il tragico periodo della guerra e dell’occupazione nazista, basti pensare al bellissimo Pietre da barricata di Robert Gliński, ispirato all’omonimo romanzo di Aleksander Kamiński e proiettato anche a Roma, lo scorso novembre, nel corso dell’appuntamento festivaliero ribattezzato CiakPolska.

In Pietre da barricata, a dire il vero, si raccontavano fatti antecedenti alla cruenta e sfortunata rivolta, come ad esempio il formarsi di quei Ranghi Grigi (“Szare Szeregi”) che, in qualità di associazione scout clandestina, organizzarono ai loro inizi semplici ma temerari atti di sabotaggio, per poi partecipare a operazioni militari più complesse. Nel film l’azione culminava infatti con la famosa Operazione Arsenal del 26 marzo 1943, rievocata tanto nelle premesse che nel suo drammatico svolgimento.
Se la cronologia degli eventi non può ovviamente coincidere, in Warsaw 44 vi è comunque un’analoga volontà di mettere al centro della narrazione le pulsioni giovanili, rappresentate attraverso slanci vitalistici che perdurano finanche nei momenti in cui è un orizzonte di morte e devastazione a circondare i protagonisti, con le truppe nazista intente a contrattaccare i rivoltosi in modo selvaggio e spietato. Ed è quindi un confronto dialettico con la realtà distorta della città martoriata, in cui anche i civili diventano carne da macello, quello in cui si trovano coinvolti i volontari, poco più che ragazzi, che nel film abbiamo visto imbracciare le armi contro l’invasore, dopo un addestramento sommario.

Non a caso vi era un attore molto giovane a rappresentare il lungometraggio di Jan Komasa all’evento triestino, quel Józef Pawlowski che qui interpreta il protagonista Stefan ma che aveva già fatto capolino nel cast di film polacchi importanti, per esempio Walesa – L’uomo della speranza di Andrzej Wajda. Chiamato sul palco prima della proiezione, ha detto di essersi ispirato al metodo Metodo Stanislavskij e alla letteratura di Cechov, come anche ai racconti sull’occupazione nazista ascoltati in famiglia sin dall’infanzia, per dare forza a un personaggio che sapeva esser parte di una storia assai rilevante, per il proprio paese. Da parte nostra, più prosaicamente, ci limitiamo ad annotare la notevole bravura sua e di parecchi altri interpreti che, passando agilmente da parentesi più scanzonate a frammenti decisamente tragici, hanno reso un buon servizio allo spirito di cui è permeato il film.
Per il resto, Warsaw 44 è opera in cui la grandiosità della ricostruzione scenografica e l’impatto degli effetti visivi nelle sequenze di combattimento si fanno molto apprezzare, trascinando l’occhio dello spettatore in una catena di eventi drammatici, che lascia costantemente con il cuore in gola. Esplosioni che si ripetono una dietro l’altra. Fughe al ralenti sotto autentiche piogge di proiettili. Minuziose carrellate su un campo di battaglia devastato, tra corpi sanguinanti e armi che non cessano di sparare. Se il ritmo che si impone in questo racconto bellico così incalzante e drammatico risulta pertanto pazzesco, c’è da dire che certi eccessi hollywoodiani fanno storcere un pochino la bocca: il rischio di avvicinarsi troppo all’estetica fracassona di un Michael Bay o dello Stalingrad 3D, realizzato di recente in Russia da Fedor Bondarchuk, a tratti si percepisce. Anche perché una memoria più cinefila non può fare a meno di confrontarsi con il rigore di Wajda nel dirigere I dannati di Varsavia, visto l’argomento trattato. Ma sarebbe altrettanto sbagliato fossilizzarsi in confronti del genere, resi improbabili dai contesti talmente diversi che hanno visto venire alla luce i film in questione. Non è perciò il caso di rinnegare, pur mantenendo qualche comprensibile riserva, le forti e non futili emozioni che un film come Warsaw 44 ci ha saputo regalare.

Stefano Coccia

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