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‘Il giovane favoloso’, Martone e il ’68

Il film di Mario Martone su Leopardi come restituzione simbolica e memoriale di vissuti collettivi recenti

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Un’analisi de Il giovane favoloso di Mario Martone. E non solo.

Il Desiderio (quale materia carnale e abbacinante di espressione individuale) VS la Legge (quale autorità paterna claustrale, e quale ghettizzazione sociale e stigma di una cultura fatuamente edonistica, progressistica e anaffettiva).

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Il giovane favoloso di Martone

È il dramma e il conflitto del film Il giovane favoloso, una narrazione delle esperienze di vita ed esistenziali di Giacomo Leopardi su cui il regista proietta metaforicamente il proprio bilancio intimistico sul movimento del ’68 e sui suoi postumi nei successivi anni di riflusso.

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Un dispositivo semiologico speculare al precedente lungometraggio di Mario Martone Noi credevamo, che utilizza referenti culturali dispersi agli albori del secolo novecentesco (l’Ottocento del romanticismo o del risorgimento) per richiamare e simbolizzare vissuti e contraddizioni di una ben più recente memoria collettiva, intenzionalmente rimossa alla coscienza del gran pubblico: quella per l’appunto della nostra stagione calda della contestazione, dal 1968 in avanti, e dei relativi sbocchi nei consumistici anni ’80, che cambieranno radicalmente pelle e umori al Belpaese.

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Il focus del film

E se, in Noi credevamo, la prospettiva era quella di un apologo civile sulla disillusione di più di una generazione di giovani attivisti politici, e sui loro eventuali deliri di (auto)distruzione nel terrorismo eversivo, qui il focus tematico latente si fa quello, più esistenziale e soggettivato, di un’antropologia del desiderio individuale eccedente i vincoli, vecchi e nuovi, di un conservatorismo dalle facce molteplici, storicamente mutevoli ma sempre castranti: da quella luttuosa di un cattolicesimo devoto, remissivo e oscurantista (le cupe presenze clericali e la lugubre figura religiosa della madre del protagonista nella prima parte del film), a quella claustrofobica di una società e di un’economia familiste (il padre-tutore e aguzzino), a quella piccolo-borghese e rampantista dell’idolatria dei “grandi” uomini di potere e di prestigio (ancora il padre aristocratico, nella sua tronfia incentivazione delle straordinarie doti cerebrali del suo rampollo), fino a quella omologante e piattamente edonistica che orienta il consumo culturale e l’autocoscienza personale in tanta attuale postmodernità (la società borghese proto-positivistica di Firenze che impone a Leopardi il prezzo dell’emarginazione e della precarietà materiale per il suo anticonformismo ideologico).

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Francesco Di Benedetto

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