Biagio, l’ultimo lungometraggio di Pasquale Scimeca, prima che un film sulla vita di un uomo che ha rinunciato alla civiltà dei consumi per intraprendere un percorso diverso fatto di povertà, essenzialità, rapporto con la natura e semplicità, sulle tracce dell’esempio di S. Francesco, è una profonda riflessione sul cinema, e, più in generale, su cosa significhi, oggi, realizzare un’opera. Lo stesso Scimeca introduce – appare in un istantaneo cammeo – il film, e lo vediamo seduto al banco della moviola mentre parla con un suo collaboratore, ponendo(si) una domanda fondamentale: “Per chi facciamo i film, per noi stessi o per gli altri?”. Biagio, quindi, diventa un’occasione per sviluppare una questione decisiva che, tra l’altro, ricorda non poco, per il tema trattato, l’ultimo film di Leos Carax, Holy Motors, dove l’autore sollevava un’acuta riflessione su cosa significhi continuare a produrre, sempre che ci si riesca, bellezza, e in cui ad essere tematizzato era, in particolare, lo sguardo dello spettatore, il versante della fruizione.
Seguiamo Biagio Conte (Marcello Mazzarella) nel suo viaggio – che non è una fuga, ma nemmeno un ritorno – che lo conduce verso la natura, con la quale intrattiene un rapporto viscerale, sacrale, fatto di rinuncia, ma, allo stesso tempo, di gioia. Particolarmente riuscita è la sequenza in cui lo vediamo raggiungere una piccola cascata in mezzo al bosco: davanti alla bellezza gratuita, immediata di questo scenario, prova commozione, alza le braccia al cielo, celebrando la meraviglia di quello spettacolo. Esattamente come faceva il centauro che istruiva Giasone all’inizio di Medea di Pier Paolo Pasolini:
Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio. Tienilo bene in mente; quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito, e comincerà qualcos’altro; addio cielo, addio mare. Che bel cielo! Vicino, felice. Dì, ti sembra che un pezzetto solo non sia innaturale e non sia posseduto da un dio?
La natura nella sua eccedenza diviene il luogo a partire da cui Biagio fa esperienza della privazione, ma, al tempo stesso, di un’essenzialità che libera dai bisogni indotti, dal superfluo, e lo vediamo ritornare bambino, ma non nel senso di una regressione quanto piuttosto di una liberazione dalle sovrastrutture. Rinunciando all’utilizzo del denaro, Biagio s’installa in una fase pre-capitalistica, dove invece del valore di scambio vige ancora il valore d’uso, e in questo senso, forse, gli si possono riconoscere i tratti del rivoluzionario. Lo seguiamo nel suo ritorno in città, dove, dopo una prima fase di spaesamento, comincerà la sua attività benefica, occupando l’ex disinfettatoio di via Archifari a Palermo, da anni in abbandono, in cui fonda la missione di Speranza e Carità, offrendo un tetto e un pasto caldo a chi ne ha bisogno.
Scimeca, poi, mette in scena se stesso con un personaggio che, dovendo realizzare il film su Biagio lo intervista, e, verso la fine del film, afferma: “Volevo fare un film bello che costituisse un’occasione di salvezza per chi lo guarda.” Torna, dunque, la questione di cui si diceva all’inizio, e, forse, pare abbozzata una risposta: offrire una prospettiva alternativa, un cinema che occasioni non solo idee estetiche, come di certo il grande cinema sa fare, ma anche altre possibilità, altre rotte da praticare, e la rinuncia, il divenir-bambino, il perseverare disinteressatamente costituiscono alcune ipotesi, che, al di là di ogni retorica gratuita (giacchè vissute da Biagio sulla propria pelle), vale la pena di prendere in considerazione, anche, e soprattutto, in una prospettiva laica.
Luca Biscontini