Si è appena conclusa la seconda edizione dello Spanisches Filmfest Berlin, una finestra aperta su una cinematografia tutta da amare e da scoprire installata e al Kino Babylon e al Kino Moviemento. 16 lungometraggi, 8 documentari e un focus sul cinema colombiano di 3 titoli e 6 cortometraggi sono stati il palinsesto dell’evento; ad aprire il sipario è stato il film vincitore di ben 10 premi su 18 candidature ai Goya, Blancanieves di Pablo Berger. Blancanieves è una fiaba gotico-drammatica come il racconto dei fratelli Grimm a cui si. Muto e in bianco e nero, sembra calcare l’onda del successo indotto dal Premio Oscar The Artist di Michael Hazanavicius, con la bellissima Bérénice Bejo e Jean Dujardin, anche se si distingue dal suddetto per il tema e, soprattutto, per le atmosfere tutt’altro che rassicuranti. La nostalgia per l’espressività del cinema muto cede il posto alla tragedia di una bambina nata dalla morte della madre, respinta da un padre – famoso torero – assalito dai sensi di colpa, accettata alla morte della nonna dalla matrigna ma solo per essere relegata ai lavori più umili, finalmente vicina al padre, miseramente fatto fuori, accolta da un gruppo di (sette) nani toreri.
L’Andalusia degli anni ’20 è l’arena dove l’acclamato Antonio Villalta (Daniel Giménez Cacho) si esibisce. Un giorno affronta un toro e viene sconfitto. Da quel momento il suo calvario ha inizio: il dolore per l’amore perduto lo porta a rinnegare la neonata – in condizioni di fortuna – Carmencita (da adulta, Macarena García), e a ripiegare sul finto amore dell’infermiera senza scrupoli assetata di denaro con la quale si sposa.
Blancanieves diventa, nell’immaginario turbato e perturbante di Berger, la rilettura dark di una fiaba inserita in un contesto socio-antropologico tipicamente spagnolo fatto di gitani, toreri e ballerine di flamenco. Nel mix di fantasia gotica e realtà romantica non mancano l’arcigna e arrivista matrigna, Encarna (Maribel Verdú), che accesa di gelosia riduce a schiava la piccola principessa per poi tentare di eliminarla una volta cresciuta, storie di toreri trionfanti e poi decaduti, di corride che appassionano un popolo, di affascinanti ballerine di flamenco, di zingari accudenti ma anche un po’ cattivelli. Con ironia e un senso dell’umorismo caustico e quasi irriverente, Berger omaggia la tradizione del cinema muto aggiornandolo tuttavia ai tempi moderni, mantenendo il gioco attoriale a una forma attuale. Un film assolutamente contemporaneo, girato in un luminoso bianco e nero, a cui la parola è stata sottratta e affidata alle sole didascalie. Blancanieves è stato proiettato in anteprima assoluta al Toronto Film Festival e, nel rispetto della tradizione che chiama i musicisti a sonorizzare dal vivo i film muti, ha avuto in alcuni teatri il suo accompagnamento live. Del resto l’elemento musicale è parte del fascino del film, dove la colonna sonora firmata da Alfonso de Vilallonga è di per sé essenziale per rimarcare l’esotismo dei luoghi e degli avvenimenti.
Il viaggio alla scoperta di geografie filmiche continua con il film in stop motion O Apostolo di Fernando Cortizo con le voci di Luis Tosar, Geraldine Chaplin e Jorge Sanz. Mistero, avventura, humor, horror e fantasy si intrecciano per raccontarci la storia del fuggitivo Ramón, rifugiatosi nel piccolo e isolato villaggio di montagna dove anni prima aveva nascosto un tesoro. Il suo ‘cammino terreno’ incontra quello spirituale di Santiago, e non solo: ci sono gli ‘innocui vecchietti’ dall’aspetto tutt’altro che rassicurante e sempre pronti a offrirgli qualcosa da bere – con un’insistenza alquanto sospetta, una maledizione che si perpetua da oltre 600 anni, l’Arciprete di Santiago sempre alla ricerca del lusso adatto al suo rango, misteriose scomparse. Le sorprese non finiscono di certo qui, presto Ramón scoprirà a sue spese che gli ‘innocui vecchietti’ cercano anime da offrire al Tristo Mietitore per avere salve le proprie. La ricerca del tesoro diventa così un’esperienza mistica e avventurosa fatta di spiritualità, venialità, mistificazione, vissuta da creature in plastilina ben caratterizzate.
Dall’animazione più leggera alla trasposizione/tradimento dovuto, l’Otello di Hammudi Al-Rahmoun Font riprende l’omonima tragedia di Shakespeare per mettere in piedi un film/making of che gioca a mescolare i livelli di verità e finzione. In un teatro di posa, due attori non professionisti diventano Otello (Youcef Allaoiu) e Desdemona (Ann M. Perellò).
La messa in scena è intervallata dal casting ai due, una coppia nella vita. Il regista incalza con domande sempre più intime e tendenziose per portarli ad affermazioni pericolose, sonda il terreno su cui si edifica la loro relazione e li provoca sul fronte della gelosia e della fiducia per spingerli fino ai rispettivi limiti. In scena, il regista pretende di vedere la verità delle emozioni e per ottenerla è disposto a tutto. Il momento più controverso e doloroso arriva quando Desdemona deve girare la scena di sesso con Cassio. Hammudi Al-Rahmoun Font vorrebbe vedere realizzata la scena della sua vita, un amplesso vero, ma Desdemona è paralizzata dai sensi di colpa per il suo Otello geloso e quindi la scena si gira ma ha solo la parvenza di verità. L’ultima tappa di questo rifacimento che procede per punti cardine prevede l’esplosione incontrollata di gelosia suscitata in Otello dalle maldicenze di Iago. Chi interpreterà il ruolo di Iago in questa rappresentazione cinematografica? Tutto è il contrario di tutto, il finale vi spiazzerà. Furbescamente, il regista ha costruito la realtà nella finzione per condurci dove voleva, ossia all’immedesimazione con i personaggi/attori/non-attori. Il progetto è una riflessione teorica e quindi pratica dell’arte del fare cinema: l’assunto da dimostrare a costo di sadismo o onnipotenza registica è la potenza emozionale insita nella verità a scapito della sola rappresentazione della stessa. Otello è anche un’esplorazione della coppia intesa come due entità che si attraggono (pericolosamente) e si alimentano vicendevolmente. Quella considerata, con le polarità Otello/gelosia e Desdemona/seduttrice, è una delle tante possibili e inevitabili. Essenziali l’uno all’esistenza dell’altro, non esisterebbero ‘Otello’ senza ‘Desdemona’: i due estremi hanno bisogno l’uno dell’altro per comprendere e attivare la propria essenza e quindi essere.
Il set minimalista di Otello – il nero circonda la scena fatta di un letto e poco più – ambisce a scarnificare il più possibile la raffigurazione per dare risalto alla sostanza: corpi attoriali in costume e sentimenti istigati, nascosti, esplosi riempiono il vuoto appositamente creato per noi, affinché possiamo entrare idealmente nella storia e viverne appieno il dramma.
Non vi lascerà indifferenti il documentario su Albert Casals. A causa di una malattia violenta, una leucemia con complicazioni annesse, Albert ha perso l’uso delle gambe all’età di cinque anni. Costretto alla sedia a rotelle, Albert è tutt’altro che un bambino triste e sconfitto dal fato – piuttosto duro, c’è da dire – né tantomeno ora un ventitreenne (ventenne all’epoca di Mon Petit) che non sa come apprezzare la vita ed essere felice. Non vi sono frasi pronunciate da Albert che non sfociano in un sorriso speranzoso e contagioso, come anche non esistono generosità umana e bellezza dei luoghi che non meritano l’affascinante risata del grande traveller mai tourist. Albert viaggia facendo l’autostop dall’età di 15 anni, ed ha visto così tanti Paesi da non riuscire a ricordarli tutti.
Mon Petit è un documentario pensato da Marcel Barrena il quale ha voluto seguire l’avventura di Albert e della sua ragazza Anna partiti da un paese non lontano da Barcellona per arrivare dall’altro capo del mondo, in Nuova Zelanda, intenzionati a visitare un faro e vedere cosa pensa e come vive chi si trova esattamente dalla parte opposta di casa. Il documentario mostra le interviste al padre, alla nonna e alla madre adottiva di Albert, prezioso supporto delle sue avventure on the road, ma anche ai genitori e alle amiche di Anna, i quali contribuiscono a completare il ritratto di uno spirito libero che viaggia su insolite quattro ruote. I filmati famigliari di un’infanzia interrotta bruscamente ci raccontano di un affetto eccezionale e libero/liberatorio tradotto in continui stimoli e in una forza miracolosamente ritrovata e trasmessa ad Albert nella forma di ali per volare.
In 200 giorni e con 20 euro in tasca, Albert ha macinato 30.000 Km accogliendo i passaggi di automobilisti e camionisti, imbarcandosi senza pagare su navi, su autobus e treni dal biglietto pagato da amici di piccoli tragitti. Gioia, meraviglia e gratitudine sono state e sono le amiche fidate di una vita vissuta per strada, liberamente e senza troppi programmi ma soprattutto nella fedeltà a un solo dio, la felicità. Le riprese amatoriali girate da Albert e Anna sono confluite nel documentario rinforzandone l’autenticità e regalandoci un ventaglio di volti amici e ospitali incontrati lungo il cammino, di luoghi lontani, di tradizioni a volte bizzarre. Albert ha un sogno e vive per realizzarlo. Presente in sala, dopo la proiezione, Albert ha donato sorrisi, coraggio, trasmesso voglia di vivere e di vivere assecondando solo la propria natura.
Viaggiare per Albert non è mai stata una fuga ma esplorazione, arricchimento, incontri con umanità lontane eppure simili, un modus vivendi che non conosce limiti di sorta, confini geografici, impedimenti fisici, limiti di risorse.
The last but not the least, arriva il simbolo politico a soppiantare la parabola biblica. ‘Un progetto pensato e organizzato orizzontalmente, dove tutti si sono occupati di tutto, hanno lavorato secondo lo stesso potere decisionale, le stesse responsabilità, e per la stessa paga’. Chiqui Carabante ci ha raccontato così il suo irriverente progetto sulla figura di un Cristo radicale. Una produzione portata avanti, quindi, in armonia con il contenuto sostenuto, la storia di un uomo che non vuole essere chiamato Maestro il cui scopo è portare amore ai suoi fratelli, l’umanità tutta.
Ingegnoso, scatenato, duro e puro come la forza dissacrante con cui riduce a brandelli la dottrina, Chiqui Carabante strizza l’occhio ai Monty Python e al loro Life of Brian (Brian di Nazareth) quando si tratta di calibrare le sfumature di sarcasmo.
12 + 1, Una Comedia Metafisica è un oltraggio ben accetto al buon gusto e alla lettura borghese e istituzionalizzata della vita e del pensiero di Cristo, la cui personalità è aggiornata a una versione nuova che si abbandona al turpiloquio, punisce i discepoli che non rispettano la parola data, trasforma se stesso e metà dei suoi in donne per concedere una notte di sesso a tutti. Un Cristo cattivello, insomma, o forse semplicemente umanizzato, pasoliniano, che non dimentica mai di infondere coraggio, di aiutare il prossimo, di combattere i privilegi, le istituzioni e i templi come luogo raccolto di preghiera a favore di una diffusione del Verbo d’amore per strada, tra la gente. 12 + 1, Una Comedia Metafisica si guarda bene dalla flagellazione di un Cristo storpiato dalla tradizione, una tradizione orale e scritta messa alla berlina per aver strumentalizzato la sua figura e incanalato a proprio piacimento la sua energia di guida. Chiqui Carabante è un provocatore, un dissidente del sistema clericale (e cinematografico) come se ne vedono pochi in giro, una voce ritrovata dell’assurdo come lotta contro l’incomprensibile.
Nella sua personalissima re-visione, Il Battista ha perso la fede ed è lucidamente diventato un assassino che agisce nel deserto e Giovanni è in realtà una donna, l’incarnazione della fede più pura, bella e asessuale. In un deserto dalla luce accecante (complice la sabbia bianca e riflettente di Fuerteventura) si aggirano un Cristo in crisi che non vuole più insegnare niente e i suoi discepoli. ‘Cercano qualcosa ma cosa lo sa solo uno di loro, colui che chiamano Maestro. Aggirarsi nel deserto è pericoloso, per le difficoltà del luogo in sé, dove l’acqua scarseggia e si trascorrono molte ore sotto il sole cocente, e perché il Battista, un credente che ha perso la fede, sgozza chi gli capita a tiro per poi urlare che niente ha senso. Il gruppo non sa se quel che cercano sia Dio o la morte, o se le due cose siano in realtà la stessa’. L’intrigante sinossi è solo una delle interpretazioni possibili. I 12 – noi tutti – hanno/abbiamo bisogno di credere, per non impazzire come il Battista e perdere il senso della vita e della morte. Gesù, un maldestro buono e generatore di miracoli bislacchi, una creatura la cui saggezza risiede nel dubbio e la cui unica certezza, se si può azzardare, è l’amore, è l’eletto Maestro, e poco conta se lo è davvero o se lo è solo agli occhi di chi ha bisogno di credere. Non ha le risposte a tutte le domande, non vorrebbe essere seguito né vorrebbe avere qualcuno a cui insegnare quella Verità che egli stesso non possiede, ma nel frattempo accontenta i suoi seguaci, li ascolta, racconta loro storie polisemantiche aperte a libere letture, dissacra il mito della parabola biblica per farsi uomo politico, messaggero di non-sensi e non-verità.
Una menzione merita il brillante ed espressivo cast in cui si annoverano gli interpreti Gorka Zubeldia, Fran Torres, Alex Peña, Manuel Monteagudo, Juanfra Juarez, Javier Castro, Guillermo Villalba, Julian Manzano, Enrique Asenjo, Aranzazu Garrastazul, Fran Machado.
Francesca Vantaggiato