Faris, un uomo trans, e la band Shh…Diam! (che in lingua malese significa zitto!), provocano con le loro canzoni: tutto nasce da una festa in piscina, quasi per scherzo. E da ciò scaturisce il vero e proprio spirito della band: andare contro il potere autoritario malesiano governativo. Ogni membro all’inizio non è consapevole di ciò che diventerà il gruppo. È un farsi continuo, in continua evoluzione. E noi, spettatori del Pordenone DOCS Fest XVIII Edizione, siamo felici di poter assistere a tale evoluzione sullo schermo.
Queer as Punk, riderci sopra
La risata è il motore narrativo del documentario di Yihwen Chen. Ma è anche risposta ai conservatori bigotti, a coloro che arrivano in ritardo a una loro manifestazione, e non trovandoli inveiscono contro altri manifestanti. Tutto ciò rivela la profonda ignoranza che nella superficie permea spesso l’ala conservatrice in Malesia. È anche una lotta contro la legge islamica: una volta nati sotto questa veste religiosa non ci si può convertire ad altri credi o diventare atei. Dunque è un continuo paradosso, non solamente burocratico, ma anche sociale. Un membro queer della comunità islamica è socialmente e severamente punito.
Queer as Punk: Di che cosa tratta il documentario?
Il documentario, vincitore del Premio del Pubblico della XVIII Edizione del Pordenone DOCS Fest, segue la vita privata dei membri della band Faris, Yon e Yoyo. Ci focalizziamo, però, sulla figura del frontman, il sopracitato Faris. All’inizio sembra un road movie, alla Thelma e Louise, e capiamo che lui ha perso il lavoro a causa di un cambio dell’organico nella sua azienda. L’ha perso ma lo dice ridendo. Forse, questo, è un fare orientale che a noi vien difficile comprendere. Si rimbocca le maniche: insieme a tutta la sua band, vaga per le maggiori città europee facendo concerti ed intrattenendo le persone nei pub, nelle discoteche all’aperto, e nei rave improvvisati. Prosegue così il documentario, che con la telecamera spesso a mano, mostra gli spostamenti della band, fintanto che arriva il Covid-19.
Covid-19 e “Lonely Lesbian”
Arriva la tanto temuta pandemia, e le cose cambiano. Questa sequenza è la più rappresentativa di tutto il documentario: il gruppo è in un ristorante all’aperto, e canta il brano Lonely Lesbian (attenzione alle lettere maiuscole nelle canzoni, niente passa inosservato nel linguaggio da utilizzato, sia parlato che scritto). I’m alone in this bar, no other lesbians around me (Sono da sola in questo bar, nessuna lesbica vicino a me). Sometimes I think I might be the only lesbian in this town. I need a hand to hold. (A volte penso di essere l’unica lesbica in questa città. Necessito una mano da afferrare).
I’m so lonely! So fucking lonely! I’m a lonely, lonely, lonely, lonely, Lesbian!
Tutta la sala è atterrita, nel senso migliore del termine: stiamo assistendo a quella che è musica sociale, rivoluzionaria. Comprendiamo la solitudine e la difficoltà che molti membri della comunità LGBTQIA+ devono affrontare quotidianamente. Lo facciamo sorridendo e piangendo al tempo stesso. Come ci ricorda anche Paris is burning, ecco che il ballo, la musica, la festa, diventano tutti modi, unici nel loro genere, di sentirsi, per poco tempo, giusto la durata di qualche canzone, senza dita puntate addosso. Senza identità da dover fornire. Senza sguardi inopportuni. Sperimando, per poco, quello che le persone “[…] etero sperimentano tutti i giorni. Vuoi essere un business man? Lo puoi essere. Puoi anche essere un bianco se vuoi. Qui ci si può realizzare, e dimenticare, che là fuori, esiste un mondo che non ti considera neanche.” (Pepper LaBeija) La sequenza sfuma in nero.
I mesi passano, e le cose cambiano
Passo importante per Faris è l’operazione al petto: va in ospedale insieme alla sua fidanzata. Tutto va liscio: ora, più che vedere un documentario, sembra di invadere una vita, come assistere ad un parto, a qualcosa di intimo. La nascita di una persona con una nuova identità. E la lotta di tutto ciò parte proprio dalle parole, dai pronomi, dalle lettere maiuscole. Dalle piccole cose, che spesso passano inosservate, come una “[…] lesbica seduta da sola in un bar”.
Il popolo, però, sta dalla loro parte
La cosa bella però è che c’è ovviamente chi apprezza gli Shh…Diam!, chi li sostiene: i ragazzi che non avendo voce la ritrovano nei loro testi cantati, ma anche uomini e donne maturi. Si va oltre l’età: perché il diritto non ha età, è di tutti, sempre e dovunque. È dunque un atto di consapevolezza molto forte, il cui fuoco risiede nella risata, capace davvero di esorcizzare quello che non va nella società. Una sfida al potere di certi governi che si professano religiosi ma che in realtà limitano, se non violano, le leggi dell’individuo, nella sua piena realizzazione, citando Dario Fo: “Il riso è sacro. Quando un bambino fa la prima risata è una festa.”
Dunque ridiamo (seriamente, come direbbe Carmelo Bene) di fronte a tutto questo: che l’eco spazzi via ogni pregiudizio.