Jacques Audiard è pronto a stupire con Emilia Pérez, un film, in arrivo nelle sale il prossimo 9 gennaio, che mescola generi e stili in un racconto unico. Ambientato in un Messico caotico e affascinante, il racconto narra la vicenda di Rita (Zoe Saldana), una giovane praticante legale frustrata dalla mancanza di riconoscimenti, la cui vita cambia quando il potente boss della droga Manitas Del Monte le chiede aiuto per inscenare la propria morte e trasformarsi, attraverso un intervento di riassegnazione sessuale, nella donna che ha sempre sognato di essere: Emilia Pérez (Karla Sofìa Gascòn).
Nel tentativo di mantenere segreta la sua nuova identità e riavvicinarsi alla famiglia, Emilia si troverà coinvolta in intrighi e tradimenti, mentre la moglie Jessi (Selena Gomez) trama di fuggire con l’amante Gustavo, attratto dalla ricchezza di Emilia stessa
Audiard intreccia noir, musical e dramma per affrontare temi di genere, identità e riscatto, indagando la lotta personale e sociale delle protagoniste. Al centro della narrazione, il corpo diventa strumento di trasformazione e simbolo di una lotta per l’autodeterminazione, in pieno stile Audiard. Ed Emilia Pérez promette di confermare il regista come una delle voci più originali del cinema contemporaneo.
Corpi che raccontano un’identità
Il cinema di Jacques Audiard è un’esperienza sensoriale e fisica, costruita attorno ai corpi dei suoi protagonisti. I personaggi vivono e raccontano la propria storia attraverso ferite, mutilazioni, ricerca di un contatto, perché per Audiard il corpo non è solo un involucro, ma il principale veicolo d’identità. Il mezzo con cui i suoi emarginati – carcerati, disabili, clandestini – tentano di dare un senso alla propria esistenza. Le loro mancanze, spesso fisiche, diventano strumenti di affermazioni e trasformazione, capaci di superare confini sociali, geografici ed emotivi senza mai negare i traumi che li hanno plasmati.
Nel mondo di Audiard, i corpi non solo subiscono il peso della vita ma ne sono il linguaggio primario: la fragilità interiore trova espressione nella carne, nella sua forza e nella sua vulnerabilità. Le storie, piccole realtà circoscritte – una prigione, una città, una relazione – tuttavia si amplificano in riflessioni universali. Audiard racconta una lotta continua per il riscatto, ma lo fa senza sentimentalismi. I suoi personaggi non sono eroi idealizzati, ma individui che utilizzano i loro corpi per portare avanti battaglie. È un cinema che parla di rotture, sia interiori che esteriori, e della possibilità di ricominciare.
Jacques Audiard: una carriera tra successi e trasformazioni
Nato a Parigi nel 1952, Jacques Audiard eredita dal padre Michel Audiard, celebre regista e dialoghista, una profonda passione per il cinema. Dopo aver lavorato come sceneggiatore, debutta dietro la macchina da presa nel 1994 con Guarda come cadono (Regarde les hommes tomber), in cui è già ravvisabile la cifra stilistica del regista con personaggi marginali e una narrazione che scava nelle dinamiche di potere e dipendenza.
Con Sulle mie labbra (Sur mes lévres 2002), Audiard consolida il proprio stile. Protagonista è Carla (Emmanuelle Devos), una segretaria parzialmente sorda intrappolata in una vita di solitudine e umiliazioni, che trova in Paul (Vincent Cassel), un ex detenuto, una possibilità di emancipazione. Il film costruisce un ritratto di trasformazione dove le fragilità si tramutano in strumenti di ribellione. Vincitore di tre César, Sulle mie labbra, cattura perfettamente il fascino e la durezza che caratterizzano l’opera del regista.
La svolta
Il 2009 segna la svolta nella carriera di Audiard con Il Profeta (Un prophéte), che ottiene il Gran Premio della Giuria Cannes e ben nove César. La storia di Malik (Tahar Rahim), giovane detenuto, è un potente ritratto di sopravvivenza e adattamento, in cui la prigione diventa un microcosmo che riflette le dinamiche del potere nella società contemporanea. Il successo del film proietta Audiard tra i grandi nomi del cinema europeo.
Con Sapore di ruggine e ossa(De rouille et d’os, 2012), Audiard raggiunge il suo più grande successo di pubblico. Il film racconta la relazione tra Alain (Matthias Schoenaerts), un giovane padre in difficoltà, e Stéphanie (Marion Cotillard), un’addestratrice di orche che perde le gambe in un incidente. Tra corpi mutilati e anime ferite, la storia esplora temi di resilienza e rinascita, confermando la capacità del regista di trasformare il dolore in forza e bellezza. La pellicola vince quattro César e consacra Audiard a livello internazionale.
In Parigi, 13arr (Paris, 13th district, 2021), Audiard racconta le vite di tre giovani alle prese con la precarietà emotiva e sociale della società contemporanea. Ambientato nel 13° arrondissement di Parigi, il film esplora temi come l’amore, il sesso e la ricerca di stabilità, in un racconto intimo e disincantato che riflette le ansia del nostro tempo.
Il tema della precarietà è centrale nella poetica del regista, e Audiard stesso ammette: «Forse ciò che mi interessa di più sono le ferite, le spaccature negli individui, e la possibilità di ricominciare la vita». È un’affermazione che riassume l’essenza del suo cinema: storie di fratture e ricomposizioni, di persone che trovano un nuovo equilibrio proprio nelle loro mancanze.
Un cinema di istinto e trasformazione
Audiard si distingue per la capacità di sfuggire agli stereotipi e alle analisi sociologiche, spingendosi oltre la formulazione di teorie distanti dalla realtà della vita vera, il suo centro resta il personaggio. Il suo cinema è fisico, carnale, ma mai superficiale. Audiard racconta storie di corpi e anime in trasformazione, creando un dialogo continuo tra il particolare e l’universale. Con i suoi film, il regista invita lo spettatore a confrontarsi con le proprie fratture, ricordandoci che, nelle crepe, si nasconde sempre la possibilità di rinascere.