Nel concorso internazionale del Festival dei Popoli 2024 c’erano due titoli italiani e tra questi anche Terra incognita di Enrico Masi.
Due esperienze utopiche si svolgono in parallelo: sulle Alpi italiane una famiglia di origini tedesche vive senza elettricità e senza contatti con la società; al di là della frontiera alpina, in Francia, è in costruzione un immenso impianto con l’obiettivo di produrre energia attraverso la fusione atomica. (Fonte: Festival dei Popoli).
Nell’ambito della kermesse abbiamo fatto alcune domande a Enrico Masi per capire meglio il film e per riflettere sulle tematiche attuali che il documentario tratta.
Enrico Masi e l’inizio di Terra incognita
L’inquadratura dall’alto dei due protagonisti a terra come prima immagine del documentario ci fa entrare subito nell’atmosfera del film e ci fa capire come dobbiamo porci nei confronti della storia: in silenzio privandoci di tutto e limitandoci ad accettare quello che vediamo.
Certo, è un’overture, un piano sequenza di quasi tre minuti, molto complesso a livello realizzativo, per quanto siano soltanto due personaggi in un ambiente asettico. È un ambiente in cui c’è una citazione per me al paesaggio emiliano e all’argine come luogo artificiale, tanto caro anche a Bertolucci, e alle gru molto complesse che fanno parte di un cinema, quello di Angelopoulos, ma per i colori anche Tarkovskij. La pianura padana, qualche volta, ricorda questi spazi continentali.
I due personaggi, che non sono i soli protagonisti, perché ce ne sono anche altri nel film, rappresentano l’uomo che si alza dal sonno della ragione (se vogliamo c’è anche l’inizio di 2001: Odissea nello spazio), superando questo spazio, che addirittura è artificiale in questo caso, per trovare un’altra dimensione, costruita però non da un nemico, ma da se stesso. Quindi è una scena estremamente simbolica, il film ha un grande piano sequenza all’inizio e un grande piano sequenza finale, che risolve ovviamente in un’altra direzione, però forse è anche importante sottolineare quanto nel documentario in questo momento, in forme diversissime, si stia utilizzando proprio la costruzione della finzione. Non è, però, una questione di confini, ma di strumenti. Quello che ci interessa oggi non è il confine tra documentario e finzione, ma sono gli strumenti che utilizziamo e anche che cosa vogliamo comunicare al di là della forma.
Infatti è un documentario particolare da questo punto di vista, per come è girato, per come racconti la storia; è una sorta di dialogo, in qualche modo, tra questi due mondi. E questo lo fa sembrare un film sugli opposti e sui contrasti con questo due che ritorna: due personaggi all’inizio, due lingue, due mondi, due visioni, che, però, poi, alla fine, non sono mai insieme, sono collegate, ma non si vedono insieme. E il fatto che si apra e si chiuda con questo piano sequenza si può considerare come se entrambi raccogliessero, in qualche modo, questo dialogo tra questi due mondi?
Sì, c’è questa dimensione, però, per quanto opposti e distanti, il flusso è come un flusso unico e la stranezza è proprio questa perché sono due universi lontanissimi che nel film scorrono insieme. E questo non è il montaggio, neanche la scelta dei formati, probabilmente è qualcosa di più profondo ed è una questione anche soggettiva e pubblica. Io credo che ci sia in Terra Incognita una sorta di universalità umanista: entrambe queste storie in realtà sono storie dell’umanismo, in cui il cavallo è la tecnologia che dall’altro lato è rappresentata dal plasma, dalla fusione.
La chiave di lettura del doc di Enrico Masi
Infatti ci sono tutte queste doppie chiavi di lettura in qualche modo. È un film che si presta a tanti spunti e tante tematiche con un rapporto strettissimo tra immagini e suono che hanno un valore importante in questo film. Come hai lavorato con la musica e con i suoni?
Io e Stefano Migliore, che siamo autori del soggetto ed esponenti della cooperativa Caucaso, una factory, un collettivo (quest’anno festeggiamo i 20 anni del collettivo e i 10 della cooperativa), sappiamo che esiste un’estetica legata fortemente alla musica perché noi siamo musicisti (io canto e sono clarinettista e Stefano è pianista, chitarrista, bassista). Abbiamo suonato tanto dal vivo e continuiamo a seguire le nostre colonne sonore insieme a dei compositori, persone che si dedicano alla musica completamente, però per noi il film da sempre è stata una composizione sinfonica probabilmente a partire dal suono e questo è molto inusuale.
Per Terra incognita la dimensione sonora precede l’immagine, sia in ripresa, sia in montaggio, anche perché la voce fa parte della dimensione sonora. Anche perché alla fine c’è un’estetica delle voci e delle lingue perché ci sono lingue differenti, ma di fatto sono suoni, sono canti e quindi questa dimensione sinfonica in Lepanto, un nostro film del 2016, aveva trovato quasi la forma del musical politico perché veramente era una copertura di musica talmente vasta che si poteva quasi parlare letteralmente di un musical. In questo caso no perché la presenza musicale non è così corposa, ma l’intreccio e la compenetrazione tra il montaggio sonoro e visivo direi che è proprio il suono precede l’immagine. E in sala questo raggiunge un effetto che tra l’altro è una novità del cinema perché il 5.1 non è storico, è forse la più grande innovazione tecnologica al di là degli effetti visivi e del digitale.
Suono e immagini
Il suono è sicuramente un elemento fondamentale che colpisce. Pensare Terra Incognita senza questo tipo di suono e queste voci vorrebbe dire vedere un prodotto completamente diverso e snaturato.
Infatti è quello che abbiamo detto anche con Fabrizio Puglisi, il compositore, che è già alla seconda collaborazione con me dopo Shelter – Addio all’Eden. Approfitto per aprire una parentesi sul fatto che sia Shelter che Terra incognita sono prodotti da Rai Cinema con Caucaso Film (per Shelter anche Ligne 7). Terra incognita dovrà, poi, trovare una distribuzione, al momento abbiamo una distribuzione internazionale, ma non la distribuzione italiana. Ci rendiamo conto che è un tipo di film che chiede anche allo spettatore uno sforzo, però crediamo che il cinema non sia soltanto intrattenimento, ma anche una forma di pensiero e di domanda sul presente, sulla contemporaneità.
La distribuzione del documentario di Enrico Masi
Mi hai anticipato con la domanda sulla distribuzione che volevo farti in relazione al fatto che il film non è solo al Festival dei Popoli, ma è nel concorso internazionale. Sicuramente è un film che, strutturalmente e non solo per questo, è internazionale.
La presenza di Artè tra i distributori internazionali garantisce un’ottima visibilità in paesi francofoni e non solo e questa è già una base di partenza. Ma c’è anche l’aiuto che ha dato Artè a livello creativo, perché le due tv principali per la distribuzione e non solo ci hanno aiutato probabilmente anche a renderlo così extra-nazionale.
Quello che a noi è interessato è raccontare una storia che, a parte il fatto che parli di tre modelli (quello italiano, quello francese, quello tedesco), che sono già molto diversi per quanto siano modelli occidentali ed europei, rispetto a un modello americano che è ancora diverso per quanto sia forse una sorta di doppio di quello europeo, è incentrata su un problema del pianeta, che non è un problema solo italiano. Stiamo parlando di un problema del pianeta e quindi le lingue che si utilizzano sono quasi il minimo per parlare questa lingua del pianeta. Forse avremmo dovuto mettersi dentro il cinese o l’arabo.
Il francese è la lingua della scienza, il tedesco è la lingua della filosofia, l’italiano è la lingua dell’affetto e l’inglese forse è la lingua della globalizzazione, quindi queste quattro lingue, per quanto occidentali, ripetute, imperialiste, rappresentano un film che nasce nel cuore lacerato d’Europa.
Dal doc di Enrico Masi una riflessioni importante
Alla fine, così facendo, hai messo insieme i valori principali, non tanto del cuore dell’Europa, ma in generale di tutto il pianeta. Terra incognita, in qualche modo tocca tutte le corde necessarie a far riflettere e spingere nella direzione di un aiuto o comunque di una riflessione.
Uno sforzo comune, perché al di là della politica, è un momento in cui la capacità di collaborazione è necessaria in un momento in cui vincono le forze del disordine. E questo disordine è anche una metafora atomica, come qualcosa di incontrollabile, come se l’incontrollabile fosse il presente. Qua siamo dopo la globalizzazione, la globalizzazione è stato un controllo, un tentativo maldestro di partecipazione globale.
Per un film che è durato sette anni non c’è niente di profetico, però è come un osservatorio di un movimento più ampio del pianeta, necessariamente. E spero che possa servire a qualcosa, che il pubblico lo colga e che non sia solo un documentario difficile che passa al festival.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli