Gianni Amelio è un regista che ha saputo anticipare i suoi tempi, preferendo temi allora considerati secondari. In tutti i suoi 54 anni di carriera ha sviluppato una propria impronta autoriale che si emancipa attraverso l’osservazione acuta della realtà, mai avulsa dall’autobiografia. Vincitore di tre David di Donatello, otto Nastri d’argento e un Leone d’Oro. La sua carriera è inimitabile. Il suo è uno sguardo morale, serio e profondo volto al disastro delle identità di personaggi che parlano la lingua della gente comune, muovendosi in un milieu sociale ben riconoscibile.
“Se andrò all’inferno, come è probabile, sarà per aver abusato del cinema fin da ragazzino”.
Gianni Amelio: l’infanzia senza figure genitoriali
Nato il 20 gennaio 1945 a S. Pietro Magisano, in provincia di Catanzaro, Gianni Amelio cresce soffrendo la mancanza del padre, emigrato in Argentina per raggiungere il nonno, trasferitosi per lavoro. Il padre, allora diciassettenne, non darà più notizie di sé. Gianni trascorre quindi infanzia e adolescenza con la madre (alla sua nascita, solo quindicenne) e la nonna; nella sua poetica sarà centrale la figura paterna, mentre le figure di donna appariranno come rarefatte e sfumate.
La sua giovinezza è segnata dalla perdita prematura della madre e della sorella. Cresce quindi con la nonna materna che lo incoraggia a studiare, conseguendo prima il diploma al liceo classico P. Galluppi di Catanzaro e successivamente la laurea in filosofia presso l’Università di Messina. Ben presto inizia a interessarsi di cinema e organizza proiezioni e dibattiti in diversi circoli culturali, prediligendo le tematiche neorealiste.
La prima svolta arriva con l’ammissione come critico cinematografico e letterario nella redazione della rivista Giovane Critica, il cui primo numero risale al dicembre 1963. Nel corso dei suoi dieci anni di attività, questa diviene la rivista giovanile più importante di Catania, potendo vantare tra le sue fila giornalisti e intellettuali come Giampiero Mughini e Nino Recupero.
“Da ragazzino non potevo permettermi di andare al cinema, così vedevo il surrogato del cinema. Per me il miracolo era poter conservare il film insieme ai miei libri. Sognavo che un giorno ci sarebbe stato il modo di tenere a casa un vero film, come si tiene un testo prezioso di Leopardi o l’Odissea. Il mio sogno si è avverato.”
I primi passi nel mondo del cinema: da assistente a regista
Nel 1965 Gianni Amelio approda a Roma, all’epoca mecca del cinema italiano e internazionale, dove lavora fino al 1969 come operatore e aiuto regista in sei film. Una buona parte vede come regista Gianni Puccini, passando poi a Giulio Questi (in Se sei vivo spara), Vittorio De Seta, Anna Gobbi, Andrea Frezza, Liliana Cavani. Parallelamente dirige dal 1967 servizi per diverse rubriche e fa da assistente ad Ugo Gregoretti, nel documentario Sette anni dopo e in molti caroselli pubblicitari.
Inizia poi a lavorare autonomamente per la televisione nell’ambito dei programmi Rai, in un periodo in cui la televisione di stato favorisce l’esordio di molti giovani registi. Debutta dietro la macchina da presa nel 1970 con La fine del gioco; tre anni più tardi realizza La Città del Sole sulla vita e l’opera di Tommaso Campanella, ottenendo il gran premio al Festival di Thonon. Segue Bertolucci secondo il cinema (1976), un documentario sulla lavorazione del film Novecento.
Realizza poi diversi lungometraggi sperimentali, alcuni dei quali particolarmente apprezzati dalla critica, come il giallo La morte al lavoro (1978), che si aggiudica il premio FIPRESCI al Festival di Locarno, e Il piccolo Archimede (1979), per la cui interpretazione Laura Betti viene premiata al Festival di San Sebastian. Infine, nel 1983, realizza il suo ultimo lavoro televisivo per Rai 3, I velieri, tratto dal racconto omonimo di Anna Banti, per la serie 10 scrittori italiani, 10 registi italiani.
“L’impossibilità di stare senza girare un film. Quella voglia che ti spinge a ricominciare a girare, appena hai finito, dimenticando i problemi e le fatiche del film precedente.”
Una scena di ‘Il ladro di bambini’ (1992).
La poesia degli sguardi teorizzata in Colpire al cuore
Dopo un periodo di tirocinio di circa quindici anni nel mondo televisivo, Gianni Amelio è ora pronto per l’approdo sul grande schermo. Colpire al cuore (1983) è incentrato sulla tematica del terrorismo. Nessun giudizio morale sulla vicenda: l’asse si sposta sul conflitto intimo, tra padre e figlio, anime messe a nudo in modo originale e per nulla retorico. Alla sua presentazione viene accolto da giudizi netti: la critica si divide tra chi parteggia per il padre contro il figlio o viceversa, mentre lo stesso regista sostiene che sono entrambi vittime delle circostanze.
“Se c’è una cosa che fa vivere di vita propria i miei film è tutto ciò che non ho raccontato, tra le cose che ho raccontato. E le cose che racconto, acquistano forza se sono forti le assenze di racconto. Colpire al cuore è tutto così.”
La gestazione di quest’opera ha subito numerosi contraccolpi. Girato con scarsità di mezzi e in otto settimane, il film vede la sua uscita nelle sale ritardata di otto mesi a causa della produzione, targata Rai. Il titolo del film è un chiaro riferimento allo slogan in voga in quegli anni dai terroristi secondo cui bisognava colpire “il cuore dello Stato”. Fausto Rossi è stato premiato con il David di Donatello e il Nastro d’argento come “miglior attore esordiente” e Gianni Amelio si aggiudica il Nastro d’argento per il “miglior soggetto originale“.
Il cinema del “cuore” di Amelio prende vita grazie alla naturalezza della recitazione di Laura Morante e Louis Trintignant, dotato già di ottime capacità recitative, qui enfatizzate grazie al lavoro di supporto e direzione del regista. Un neo-neo-realismo sensibile e delicato, che incanta anche in quasi totale assenza di movimenti di macchina, senza troppe impennate drammatiche come di consueto nella scrittura dello sceneggiatore Vincenzo Cerami.
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Una scena di ‘Colpire al cuore’ (1983).
I ragazzi di via Panisperna: la fisica dei rapporti umani
Enrico Fermi, Emilio Segre, Bruno Pontecorvo e Ettore Majorana. Gianni Amelio riparte da questi nomi, a cinque anni dall’uscita nella sale della sua opera prima, per raccontare le esperienze di vita, privata e professionale, di coloro che passarono alla storia come I ragazzi di via Panisperna (1988). Quest’ultimi furono un gruppo di giovani scienziati italiani che negli anni ’30, con le loro ricerche, diedero un contributo fondamentale allo studio e alle applicazioni della fisica nucleare italiana e non solo.
Il regista si avvale nuovamente della fruttuosa collaborazione con Vincenzo Cerami per la stesura della storia, per la quale viene insignito del Premio Flaiano alla “migliore sceneggiatura“. Notevole è il rigore con cui Gianni Amelio ha affrontato questo film: non una cronaca scientifica, né una sequela di incursioni universitarie sulle frontiere del mondo del sapere, alternate con beffarde goliardate. L’attenzione e l’interesse non cedono mai il passo al rigetto e alla noia, sempre possibili in un lungometraggio con una tematica tanto impegnativa.
“I grandi temi non li affronto mai di petto perché significherebbe banalizzarli, snaturarli. Più grande è il tema, più lo devi sfiorare, prendere di sbieco, perché la sua importanza s’imporrà comunque e non farà ombra alla gente, ai personaggi, ai comportamenti, non li schiaccerà, non li ridurrà a uno schema convenzionale.”
Una produzione che si inserisce nella solida tradizione dello sceneggiato televisivo italiano, pur rimanendo entro i canoni di una qualità cinematografica che gli accorgimenti del montaggio (trasmesso in due puntate di novanta minuti ciascuno) mettono in luce. Inoltre la qualità degli interpreti riesce a preservare la pellicola dall’usura del tempo e dei mutamenti del gusto, restituendoci il clima di un’epoca attraversata dalle contraddizioni tra una politica di forte repressione sociale, ma anche di grandi slanci intellettuali.
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Una scena di ‘I ragazzi di via Panisperna’ (1988).
Porte aperte: il successo mondiale di un controverso dramma storico
La prima vera acclamazione per Gianni Amelio arriva solo nel 1990 grazie a Porte aperte, tratto dal romanzo omonimo di Leonardo Sciascia, lanciandolo come autore di dimensioni internazionali e gli procura una nomination all’Oscar nel 1991 come “miglior film straniero“. Il titolo dell’opera fa riferimento alla propaganda fascista, secondo cui la pena di morte sarebbe stata un deterrente sufficiente a garantire agli Italiani di poter vivere con le “porte aperte” anche di notte.
Il film ci regala un’indimenticabile prova attoriale di Gian Maria Volonté, straordinario per misura e intensità. Considerato, con Cadaveri eccellenti di Francesco Rosi, il migliore dei film tratti dalla narrativa di Sciascia e con Processo alla città di Luigi Zampa il miglior dramma giudiziario italiano.
“Con Gian Maria Volontè c’è stato un amore non corrisposto. Aveva un carattere aspro. Non mi amava: accettò il film ‘Porte aperte’ perché voleva interpretare il libro di Sciascia. Sul set litigammo molto e fu durissimo, ma se oggi sono un regista “forte” lo debbo a lui e alle risse verbali.”
La storia è ambientata nella Palermo degli anni ’30, dove il giudice Vito Di Francesco (Gian Maria Volonté) tenta a suo modo di opporsi, a termini di legge, alla condanna a morte di Tommaso Scalìa. Quest’ultimo è destinato alla pena capitale per aver ucciso il suo ex datore di lavoro, avvocato Spatafora (ex collega) e la moglie. Il giudice si scontra con i poteri dello Stato e con lo stesso imputato il quale, invece, chiede di essere fucilato.
Gianni Amelio e Vincenzo Cerami, nel mettere in scena il libro, si distaccano dal tono di severa meditazione sulla morte e sull’uomo che si erge a giudice, senza mai allontanarsi dalla contestualizzazione del fatto e dell’attualità del problema affrontato. Il dialogo, scarno ed essenziale, segue gli snodi della vicenda: nella prima parte segnata dai tre omicidi di Scalia, mentre nella seconda dal processo che mette a nudo la lucida follia dell’imputato.
Una scena di ‘Porte aperte’ (1990).
Il viaggio come sintomo di cambiamento ne Il ladro di bambini e Lamerica
Nei quattro film che seguono Porte aperte (1990), Gianni Amelio sviluppa tematiche legate alla realtà sociale con dolorosa partecipazione e sensibilità artistica. Riesce così a portare allo scoperto alcuni conflitti irrisolti del passato e del presente italiano (in particolare quello tra Nord e Sud), mettendo in luce le ingiustizie e le disuguaglianze connaturate nel sistema sociale.
Il ladro di bambini (1992) è un atipico road movie che circoscrive il percorso di un inesperto carabiniere (la rivelazione Enrico Lo Verso), incaricato di scortare da Milano a Palermo due bambini in un istituto minorile. Amelio parte da un tema ruvido come quello della violenza sessuale su minori in un contesto di degrado, ambientando la storia in un’Italia descritta con realismo e in tutta la sua ostilità nei confronti dei più deboli.
Per il regista questo film è il suo più grande successo commerciale. Insignito al Festival di Cannes col Premio Speciale della Giuria, riceve inoltre l’European Film Award come “miglior film” oltre a due Nastri d’Argento e cinque David di Donatello.
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“Quelli biologici sono i tuoi unici figli? Non sono tuoi figli anche quelli che ami, che cerchi, quelli che ti cercano e non quelli che per caso hai trovato, che possono essere intesi come oggetti che solleticano la tua autostima o addirittura la tua sicurezza di essere una persona sociale?”
Due anni dopo con Lamerica, premiato con l’Osella d’Oro al Festival di Venezia, il regista affronta un altro argomento problematico e complesso: il dramma dell’emigrazione albanese e del rifiuto di accoglienza degli Italiani. Nel farlo, si affida nuovamente al volto ruvido e spigoloso di Enrico Lo Verso, e a quello risoluto di Michele Placido.
Tutto avviene nell’Albania degli anni ’90, dopo la fine del regime di Enver Hoxha e il crollo finanziario dovuto al passaggio al capitalismo. Una storia che nei tratti principali ricalca quella dell’opera precedente del regista, attraverso tematiche come quella del viaggio e della perdita di tutte le sicurezze nella vita. Un kolossal minimalista che non concede sostegni al sentimentalismo e al politicamente corretto.
“Tra i difetti del popolo albanese c’è una certa apatia, una mancanza di spinta in avanti, se non dettata dalla disperazione. Combattere la burocrazia albanese è qualcosa di titanico. C’è qualcosa di perfido e irrazionale nell’ostinazione con cui a volte ci sono stati negati dei permessi.”
Una scena di ‘Lamerica’ (1994).
Così ridevano: alla ricerca delle origini della nostra confusa modernità
Ultimo film degli anni ’90 per Gianni Amelio è Così ridevano (1998), probabilmente il suo lavoro di più difficile comprensione per il grande pubblico, vincitore del Leone d’oro alla Mostra del cinema di Venezia. L’opera è ambientata nella Torino industriale tra il il 1958 e il 1964, caratterizzata da un boom migratorio interno. Le vicende di due fratelli, Giovanni (Enrico Lo Verso) e Pietro (Francesco Giuffrida) legati da un’amore ossessivo, li porterà a condividere l’angoscia di un omicidio commesso da uno dei due.
Amelio si allontana definitivamente da facili citazioni neorealiste, da giudizi storici e da qualsiasi forma di didascalismo e ridondanza retorica che avevano caratterizzato la sua precedente filmografia. Il regista ci costringe a ripensare allo stereotipo meridionale (Colpire al cuore, Porte aperte e Il Ladro di bambini) e a situazioni e luoghi che crediamo di avere in qualche modo interiorizzato.
Lo spazio urbano (una Torino plumbea e tetra) è mostrato così come la vedono i protagonisti, con i loro occhi spaesati, la loro attonita curiosità e l’angoscia provocata dal labirinto esistenziale in cui si trovano rinchiusi. All’inizio la scelta del regista era ricaduta su Milano, unica altra alternativa possibile, ma alla fine ha optato per il capoluogo piemontese, città sicuramente meno sfruttata dal cinema.
“Credo che le mura, i palazzi, le strade di Torino esprimano tutta la loro storia senza però ostentarla: i monumenti, anche i più “eccessivi”, sono come velati da una patina di discrezione. La stessa che c’è nei torinesi.”
Una scena di ‘Così ridevano’ (1998).
Gianni Amelio: Le chiavi di casa come opera più intima e delicata
Il 2004 segna il ritorno di Gianni Amelio con Le chiavi di casa, ispirato al romanzo intimo e struggente Nati due volte di Giuseppe Pontiggia, opera stratificata e quasi impossibile da trasporre in film. Gianni (Kim Rossi Stuart) ha perso la giovane moglie in sala parto mentre dava alla luce un figlio portatore di handicap. Da allora ha rifiutato di vederlo. Ora però fa ritorno per accompagnarlo in Germania per una visita specialistica. Il viaggio e la permanenza in terra tedesca costituiscono per i due l’occasione per conoscersi e comprendersi.
“In ‘Nati due volte’ non c’è solo un’indagine letteraria, ma soprattutto una difficilissima elaborazione psicologica. Non a caso Pontiggia scrive questo suo ultimo romanzo in tarda età, quando il figlio è già adulto. Che diritto ho di saccheggiare questo bagaglio? Mi sembrava un atto di presunzione mettermi nei suoi panni. Guai se l’elemento biografico dello scrittore non diventa l’elemento biografico mio. Io lavoro sulla mia pelle, Pontiggia pure.”
Il lavoro di riadattamento del romanzo da parte del trio Amelio, Sandro Petraglia, Stefano Rulli infonde all’intero progetto un risultato diverso da altre opere che già avevano affrontato questa tematica. Il rapporto tra padre e figlio è narrato non come un work in progress di comprensione ed empatia, ma con la profonda consapevolezza della impermanenza dei comportamenti. Gianni si rende conto che la sensibilità del figlio Paolo (Andrea Rossi) è elevatissima. Ma così come lo è sul piano dell’espansività affettiva lo è anche su quello delle reazioni di chiusura, degli automatismi ripetitivi che servono a darsi sicurezza.
Il rapporto tra i due non potrà che tentare di fondarsi sulle sabbie mobili dell’incertezza, del costruire con amore ogni giorno una rete di piccoli segni tanto delicata quanto fondamentale. Ma il messaggio dell’intero film è affidato al alle parole di Nicole (Charlotte Rampling) rivolte a Gianni:
“Mi sembrava che lei si vergognasse di suo figlio”. Non bisogna vergognarsi di amare chi non ci offre certezze. É forse in questo l’essenza dell’amore più vero”.
Una scena di ‘Le chiavi di casa’ (2004).
La stella che non c’è e Il primo uomo: alla riscoperta di Cina e Algeria
Gli anni Duemila continuano per Gianni Amelio con la ferma volontà di voler ampliare la propria opera e il proprio contributo come regista andando ad analizzare mondi per lui inediti. In particolare quelli dell’analisi socio-politica contemporanea e della globalizzazione.
Partendo dal romanzo di Ermanno Rea, La dismissione, prende vita La stella che non c’è (2006). Il regista adatta liberamente il testo partendo però là dove il romanzo di Rea finiva. Il tutto con un notevole Sergio Castellitto nei panni di un responsabile della manutenzione di una fabbrica italiana che durante un viaggio in Cina scopre una realtà inaspettata. L’esperienza nel gigantesco Paese, tra coincidenze irreali e riflessioni sullo stato delle cose, sulle contraddizioni di un popolo diviso tra tradizione atavica e progresso dilagante.
Cinque anni più tardi vede la luce Il primo uomo (2012), la nona fatica del regista, ambientato negli anni ’50 e tratto dall’omonimo romanzo di Albert Camus, con Jacques Gamblin, Catherine Sola, Maya Sansa. Jacques Cormery, alter ego dello scrittore Camus, fa ritorno in Algeria per visitare la madre e alla ricerca di tracce del padre defunto. Ma il suo Paese è in pieno conflitto tra il Fronte di Liberazione Nazionale e l’esercito della Francia. Egli crede nella convivenza pacifica tra Arabi e Francesi, ma la realtà è costituita da attentati e pratiche di tortura.
Senza mezzi termini il miglior film di Gianni Amelio, almeno dai tempi de Il ladro di bambini (1992), la pellicola ripercorre a ritroso le vicende di un personaggio silenzioso e deciso, che ricerca nel proprio passato le convinzioni che lo hanno portato a essere ciò che è nel presente. Lo stile del regista è come sempre asciutto ed elegante, evita inutili infarcimenti estetici e si concentra sulla pulizia e sull’efficacia dell’inquadratura.
L’intrepido: l’importanza di vivere il presente
Dopo l’intenso tuffo nel passato in compagnia de Il primo uomo (2011), Gianni Amelio torna a raccontarci attraverso L’intrepido (2013) l’Italia di oggi attraverso la figura di un precario all’ennesima potenza, un uomo che ogni giorno non sa in quale mansione verrà impiegato il mattino successivo. Per quanto del tutto instabile nella vita lavorativa, Antonio (Antonio Albanese) ha una profonda coerenza morale. La sua è una dignità che si rispecchia nel Totò di Miracolo a Milano.
Amelio ci ricorda quanto possa essere difficile, quando non addirittura tragico, vivere il presente, in particolare per le nuove generazioni. L’intera opera è la prova di quanto sia fondamentale rifuggire il pessimismo per vivere nel presente, nel “qui ed ora”. In questo trova un valido supporto nella sempre intensa fotografia di Luca Bigazzi e nella recitazione di Albanese che sembra sfiorare la realtà nel timore, forse inconscio, di finirne contaminato.
“Il viaggio è la ricerca. La ricerca che facciamo tutti i giorni in noi stessi e nel senso che diamo alle cose e la volontà di non chiudere gli occhi, la volontà di non ignorare gli altri. Quindi il viaggio è vita. Il viaggio è come un tappeto volante da dove non si può scappare, da dove non si può scendere, sennò ti fai del male.”
La pellicola, presentata in anteprima mondiale alla 70ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia nell’agosto 2013, ottiene tre candidature al Nastro d’Argento senza però vincere in alcuna categoria.
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Una scena di ‘L’intrepido’ (2013).
Ombre e chiaroscuri di un amore silenzioso ne La tenerezza
Il regista ritorna dopo quattro anni con uno dei suoi progetti più impegnato e impegnativo. La tenerezza (2017) è liberamente tratto dal romanzo di Lorenzo Marone, La tentazione di essere felici, pubblicato nel 2015. Ambientato nella Napoli borghese, vede come attori protagonisti Renato Carpentieri, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Elio Germano e Greta Scacchi.
Tutti i personaggi si parlano, attraverso dialoghi sublimi per delicatezza e intuizione senza dire mai fino in fondo ciò che pensano. Eppure ogni loro parola, ogni loro sguardo lascia intravvedere squarci di dolorosa verità, e fa trapelare quel desiderio di essere amati che è, appunto, voglia di tenerezza. Quest’ultima è rappresentata da una mano che afferra un’altra: come fonte di ispirazione durante la conferenza stampa a Roma, Gianni Amelio ha citato il momento in cui in Ladri di biciclette di Vittorio De Sica il bambino tiene stretta la mano di suo padre, proprio nel momento in cui viene umiliato.
“Sono convinto che noi facciamo dei figli per rivincita, perché speriamo siano più bravi, belli, vincenti, fortunati di noi.”
La tenerezza è un film peripatetico non solo perché deambula lungo corridoi, moli, navate di chiesa e tunnel d’aeroporto, ma soprattutto perché cammina intorno al dolore circoscrivendolo in cerchi sempre più stretti senza avere mai il coraggio di entrarci dentro, se non in maniera infantile e violenta.
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Una scena di ‘La tenerezza’ (2017).
Hammamet e Il signore delle formiche: messa in scena della Storia
Con Hammamet (2020) Gianni Amelio affronta una pagina della Storia d’Italia sulla quale persiste una lettura contrapposta. Racconta gli ultimi mesi di vita del politico italiano Bettino Craxi, interpretato da Pierfrancesco Favino. Nel film nessuno dei personaggi direttamente ispirati alla realtà è chiamato con il proprio vero nome; la figura di Fausto Sartori, invece, non fa riferimento a nessun personaggio reale ed è un espediente narrativo voluto dal regista in funzione di “antagonista”.
Amelio e il suo team di sceneggiatori non forniscono una risposta univoca, e preferiscono concentrarsi sulla dimensione umana di Craxi e su quella scespiriana, kafkiana della sua storia pubblica. Tutto ciò laddove il singolo diventa la cartina di tornasole di un modus operandi che non riflette solo le contorsioni e le viltà della politica ma il carattere stesso degli Italiani, pronti a salire sul carro del vincitore e a scendere da quello del perdente.
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Attenendosi alla stessa fedeltà storica del precedente progetto, Il signore delle formiche (2022) ripercorre la vicenda dello scrittore e mirmecologo Aldo Braibanti, protagonista tra il 1964 e il 1968 di un processo giudiziario molto controverso. Attraverso gli occhi e il corpo di Luigi Lo Cascio il regista racconta la storia di un uomo devoto alla cura della fragilità naturale, privata e umanissima.
L’equilibrio ricercato da Amelio sta dunque in questa lotta visiva ed epidermica fra la rettitudine e la pulizia dell’amore e del suo senso politico, resistente attraverso le parole. Entrambe le pellicole rappresentano una nuova presa di coscienza culturale di Gianni Amelio, in queste opere più emotivo e partecipato da molti anni a questa parte.
“Prima di raccontare, osserva; prima di comunicare qualcosa agli altri con immagini e parole, fai in modo che quelle immagini e quelle parole ti suonino familiari; prima di muovere la fantasia, afferra le cose che hai intorno.”
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Una scena di ‘Il signore delle formiche’ (2022).
La prossima fatica di Gianni Amelio: Campo di battaglia
Alla veneranda età di quasi ottant’anni Gianni Amelio sembra non volersi ancora fermare. Il suo prossimo film, Campo di battaglia, verrà presentato in anteprima alla 81ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia e poi distribuito nelle sale cinematografiche italiane da 01 Distribution a partire dal 5 settembre 2024. Liberamente tratto dal romanzo La sfida (2018) di Carlo Patriarca, vi troviamo come protagonisti Alessandro Borghi, Gabriel Montesi e Federica Rosellini.
La storia viene ambientata sullo sfondo della Prima Guerra Mondiale. Stefano e Giulio sono due amici d’infanzia che lavorano come ufficiali medici nello stesso ospedale militare. Oltre che dall’amore per la stessa donna, i due si trovano divisi anche da due opposte visioni del loro dovere di medico, quando uno di loro comincia a peggiorare in segreto le condizioni dei feriti più gravi affinché essi non possano essere mandati di nuovo al fronte, verso morte certa.
I temi cari al regista vengono qui ripresi e rivisitati. L’amore fraterno nel senso più ampio della parola, come già avevamo potuto apprezzare in Così ridevano (1998), oltre ad un’ulteriore analisi storico-politica in proposito all’Italia dell’ante e durante la guerra.
“Ciò che io chiedo a un film è di aiutarmi a fare il successivo.”
‘Campo di battaglia’ di Gianni Amelio: alla mostra d’Arte Cinematografica di Venezia
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