Vincitore del Pardo d’oro nella sezione del Concorso Internazionale alla 77esima edizione del Locarno Film Festival, Toxic (in originale Akiplėša) di Saulė Bliuvaitė (esordiente, classe 1994) è un lungometraggio ambientato ai giorni nostri nella più disagiata provincia lituana industrializzata, che potrebbe però essere traslata a qualsiasi latitudine di degrado sociale del mondo occidentale, in qualsiasi margine di scarto del benessere più ordinario.
Incentrato sulla violazione del proprio corpo di due amiche adolescenti, raminghe e in cerca di riscatto, Toxic elude le trappole del coming of age crudo e antropologico per aspirare a qualcosa di più e di meglio: quasi un documentario narrativo (un approccio, quello documentaristico, ricorrente tra le opere di questa edizione del Festival) su una fauna sociale che conosce il malessere ma non ancora la bieca disperazione; un dittico palindromo su due piccole donne smarrite, agrodolce ed empatico; un saggio intimistico sulle ferite invisibili del corpo quando la cultura è solo quella capitalistica.
Il percorso di formazione non abita più qui
Nella desolazione periferica di una città anonima le due graziose tredicenni Marija e Kristina, amiche e complici, arrancano nella loro maturazione all’ombra di una famiglia proletaria o assente, sognando un futuro diverso, di fuga ed emancipazione, che mai avverrà. Una dotata di una bellezza languida ma imperfetta per una gamba zoppicante e l’altra sicura della sua precoce spigliatezza che cela diverse fragilità, decidono di iscriversi a una scuola per giovani modelle, che garantisce una carriera sulle passerelle di Parigi, New York o Tokyo. Previa osservanza delle ferree regole di peso. Ma neanche gli sforzi di Marija e Kristina nel plasmare pericolosamente il loro corpo su questi canoni oltre il limite serviranno a trovare un’allettante cittadinanza nel mondo adulto.
La tristezza sotto la pelle
In un calibrato bilanciamento tra spazi interni (le baracche, le camere squallide, gli asettici uffici di casting) ed esterni (piazzali deserti, boschi incolti, cortili nell’incuria) Toxic riesce a comporre il suo mosaico sui segreti prismatici del corpo femminile al bivio tra infanzia ed età adulta, tessendo silenzi, piccoli gesti estremi, primi piani sospesi, campi totali dove vibra la solitudine del singolo, ma anche un’intesa di affetto e solidarietà tra le due adolescenti.
In una storia di prevaricazione non troppo consapevole sulla propria fluida fisicità e quindi sul proprio io, in una sorta di autolesionismo senza cicatrici, Saulė Bliuvaitė esplora in particolare la multiforme potenzialità con cui si investe il corpo nella civiltà della dittatura del profitto, senza tuttavia trascurare, con delicatezza e alle soglie del pudore, la dimensione di alterità e accesso a qualcosa di invisibile ed elettrizzante, ancora tutto da esplorare nell’adolescenza. Ha dichiarato infatti la regista:
attraverso la storia di giovani ragazze che vivono in ambienti tossici, ho voluto esplorare il concetto di corpo umano: il corpo come progetto, valuta, oggetto di desiderio, il corpo come fonte di dolore e magia.
Incrocio di corpi nella dignità dello sguardo
Se a Toxic si deve, in evidenza, il merito di uno sguardo mai insistito o voyeuristico nella parabola delle protagoniste, un’altra presa di posizione etica non scontata del film risiede in una sceneggiatura (a firma della regista) che rifugge il sensazionalismo e le svolte maledette (la prostituzione è un fantasma), che racconta gli sbandamenti di giovani accattoni smorzando la retorica della denuncia (che pure aleggia) nello sguardo amorevole verso le protagoniste.
Corpi addobbati da lolite o malfermi, corpi precocemente esposti e impauriti nei meandri della sessualità, ma anche bulimia, piercing troppo audaci, dolori addominali: un ventaglio di anomalie e trasgressioni lontano da opere come Thirteen o dal cinema del primo Gus Van Sant, perché per Marija e Kristina, una affidata a un padre distratto e l’altra con genitori assenti, spira sempre il vento della libertà nello sguardo della speranza, dell’utopia, di una tristezza che diventa qua e là saggezza, della dolcezza di un’amicizia che a tutto sopravvive. Una forza espressiva del film che regge anche sulle spalle gracili delle due diafane attrici, Vesta Matulytė (una sorta di Kate Moss di inguaribile malinconia) e Ieva Rupeikaitė.
Allo spettatore che si chiede se la tossicità del titolo sia dovuta alla gestione che ne fanno le due ragazze o all’avida cecità di una civiltà in preda al nichilismo (definita da due noti psicanalisti, Benasayag e Schmit, “l’epoca delle passioni tristi”), ne è metaforica risposta l’inquadratura di chiusura, una postilla di pessimismo a conclusione di un grigio apologo umano che però ha conosciuto un approdo di salvezza.