Presentato nella sezione del Concorso internazionale della 77esima edizione del Locarno Film Festival, e in arrivo oggi al Medfilm Festival di Roma Salve Maria di Mar Coll, cineasta nata a Barcellona nel 1981 che ritorna dietro la macchina da presa dopo nove anni, si consegna alla kermesse come opera di introspezione femminile scomoda, audace e al contempo appassionante di cui ogni festival avrebbe necessità.
Una pellicola sulla maternità più fragile e controversa che per una volta non dissemina domande senza risposta, non si adagia su linee d’ombra interpretative, non si fa portavoce di facili appelli, ma con la più discreta empatia verso la protagonista Maria, una madre in crisi personale che scruta l’infanticidio sull’orlo del baratro, inietta nello spettatore le impercettibili vibrazioni d’animo, le precarie nevrosi e gli squarci del nulla depressivo di un’identità che arranca mestamente tra solitudine dell’abbandono, dissoluzione di sé, paura della stigmatizzazione sociale e il mistero di un fatto indicibile.
Un’opera che mantenendo lucidità critica ci immerge in un disagio mentale che è viaggio interiore di riconquista, che fa immedesimare nell’altro con delicatezza e tensione trainante, con sensibilità catartica e non univoca, partecipe nell’accogliere anche lo sguardo offuscato della controparte paterna.
Una storia di repulsione e amore
Barcellona, ai giorni nostri. Maria, giovane e promettente scrittrice, è alle prese con la gestione della maternità. Il figlio neonato Eric, come tutti i bambini, la priva del sonno e del tempo. Affianca Maria il compagno Nico, affabile ma distante e troppo assorbito dal lavoro, in attesa di un congedo di paternità che tarda ad arrivare. Maria arranca, in un’implosione di esaurimento fisico e prostrazione emotiva, impossibilitata anche a dedicarsi alla sua professione, senza chiedere aiuto e lanciare volutamente segnali, neppure a un’invadente conoscente, una fan appassionata dei suoi libri.
Un equilibrio interiore distorto da rinunce e sacrifici che si incrina maggiormente quando la comunità catalana è sconvolta dall’infanticidio di due gemelli di dieci mesi da parte di una giovane madre. Un caso raccapricciante di cronaca nera che diventa nella mente di Maria un assillo, un punto di non ritorno, un enigma di cui vuole conoscere la radice e la realtà, prima raccogliendo notizie e approfondimenti sul crimine, poi mettendosi sulle tracce della colpevole, risvegliando il suo animo di scrittrice. Ma le ricerche flirtano sempre nella dimensione dell’incubo, mentre Eric non è del tutto esente da pericoli …
Un’eco di voci, la prospettiva di altri sguardi
Se il titolo, Salve Maria, oltre a rimandare all’Annunciazione cristiana e alla storia mariana, non può non richiamare Je vous salue, Marie (1984) di Jean-Luc Godard (il vissuto della Vergine riletto alla luce della contemporaneità, un film a suo modo religioso ma che attirò feroci critiche in tutto il mondo), il film di Mar Coll riflette altre opere e altre storie incentrate sulle difficoltà e sull’irrisolutezza nell’essere madre.
Una natura intertestuale già intrinseca, come si evince dalla divisione in capitoli recanti ciascuno in epigrafe la citazione di autrici femministe o di voci e testi rappresentativi del tema, da Sylvia Plath a Simone de Beauvoir fino, inevitabilmente, a Medea. E immancabile nella memoria dello spettatore il confronto di pellicole che hanno saputo misurarsi con tutte le più fragili o controverse sfumature della maternità rifiutata, compromessa, indesiderata, ingestibile, sofferta.
Da uno dei filoni narrativi di The Hours di Stephen Daldry, con Julianne Moore nei panni di una madre ancora incinta a un passo dal suicidio, all’ ‘incubazione’ emotiva in cui si ritrova la donna interpretata da Margherita Buy (non casualmente di nome Maria), con la figlia nata prematura, sospesa tra la vita e la morte in Lo spazio bianco di Francesca Comencini. O l’inferno domestico sceso in terra, ma raccontato in toni pastello che sconfinano nel fiabesco, in Tully di Jason Reitman, con la neomamma sformata di Charlize Theron; ancora, i ritmi materni forsennati scanditi a letterali passi tachicardici nella quotidianità in Full Time di Éric Gravel.
Lo spettro di Medea, i fantasmi dell’inconscio
Pur senza una vena citazionista o influenze apertamente rimarcabili, Salve Maria si inserisce in uno specifico filone di film, ben conscio dei punti di vista raccontati da altri registi, del pensiero coltivato da una fiorente letteratura di voci femminili che ha come capostipite il mito classico Medea, con tutte le sue riletture nei secoli.
Privo di un’impalcatura di scrittura veramente originale e ancorandosi a una messa in scena di abile padronanza del mezzo, Salve Maria riesce a raccontare lo scarto tra l’individuo e la società con un pudore e un affrancamento dal pregiudizio che non disdegna il coraggio necessario per far emergere sul volto di Maria (Laura Weissmahr) l’imperativo morale incatenante dell’adeguatezza e della rassegnazione cristiana, per costruire con la cinepresa una spazialità che interagisce simbolicamente con la protagonista e ne esprime l’oppressione assillante del contesto, il livore dell’inconfessabile che sfida tabù secolari. Uno spazio che non è ‘bianco’ come nel film della Comencini e che diventa proscenio dell’allucinazione più torva, della materializzazione psichica più sinistra della minaccia (come la visione di un corvo nero).
Come dichiarato dalla stessa regista,
in questo film esploro la figura inquietante della madre che rimpiange di esserlo. Intrappolata fra un tenace senso di colpa e l’incomprensione della società, Maria fa fronte alla paura di essere un mostro tramite un racconto agghiacciante frutto della sua immaginazione.
La madre oscura, la risalita dal Cháos
In una sceneggiatura che predispone l’economia del racconto nelle corde tese del thriller dell’anima, nella spirale di un irreparabile da evitare (ma senza forzature e con una dose di accorta sobrietà), Salve Maria si consegna alla forza interpretativa di Laura Weissmahr, un po’ Adèle Haenel, un po’ Chloë Sevigny, in grado di pennellare il suo personaggio con rispettoso minimalismo, con un virtuosismo sommerso in panni dimessi, ma abile nel far emergere qua e là una fioca e dolce luce di speranza tra le tenebre, in cui confida sempre lo spettatore.
C’è un finale degno di nota in chiusura a Salve Maria, che inserisce in una tradizione liberatoria in voga nel cinema degli ultimi anni; vi è anche nell’epilogo una confessione di dolorosa grazia e delicatissima, intelligente verità che avvalora ulteriormente questo racconto di dissociazione psichica tra le mura del perbenismo forzato, un percorso di rinascita senza retorica né disillusioni, che è anche uno sguardo duro e doloroso sulle possibili e impervie vie della resilienza. Uno sguardo, infine, d’amore.