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Mubi Film

Otto cortometraggi interessanti da vedere su Mubi

Una selezione tra debutti unici come Justin Triet e corti di maestri conclamati quali Almodóvar e Miyazaki

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Otto cortometraggi, disponibili su Mubi, sono la dimostrazione che anche in pochi minuti sullo schermo si possono comunicare storie incredibili. Tale forma narrativa, presente in questa ricca piattaforma, è un terreno fertile di sperimentazione per chi fa cinema e per chi vuole vedere nomi noti o registi in erba affrontare un formato diverso, adattando in poco tempo tematiche dense. I film scelti in questo articolo sono entusiasmanti e portano firme autoriali. Ci sono debutti anticipatori degli stili personali, come Hayao e Coppola; prove più mature con generi diversi dal loro solito, come i casi di Almodóvar e Rohrwacher. La fresca vincitrice dell’Oscar Triet che conferma il suo sguardo sulla realtà. E c’è chi, in trenta minuti, riesce a trasmettere la complessità dei sentimenti, come Rohmer.

Tra rifugio per la libertà creativa, innovazioni visive, interesse sociale e viaggi nella mente umana, gli otto titoli selezionati sono imperdibili.

Otto cortometraggi da vedere su Mubi: Yuki’s Sun, 1972

Tredici anni prima che fondasse lo Studio Ghibli assieme a Takahata e Toshio Suzuki, Hayao Miyazaki ha fatto il suo debutto nella settima arte. Difatti il cortometraggio è l’episodio pilota di una serie mai prodotta che ne rappresenta l’esordio alla regia. La sceneggiatura è nelle mani di Isao Takahata. Yuki’s Sun è basato su un popolare fumetto manga per ragazze. La trama racconta di come Yuki, cresciuta in un orfanotrofio, viva felice nella campagna di Hokkaido. All’età di dieci anni viene adottata e ciò porta la ragazzina alla ricerca dei genitori biologici e delle proprie origini.

La scelta del volume al femminile non è casuale. Yuki anticipa le eroine dei capolavori successivi del giapponese, come ad esempio Satsuki in Il mio vicino Totoro (1988), Chihiro ne La città incantata (2001) e Sophie ne Il Castello errante di Howl (2004). Valorose e impavide ma anche tremendamente umane. La protagonista del corto del ’72 è una giovane il cui spirito coraggioso ben si adatta alla cura per il movimento, come si evince dalle cavalcate o dalle corse che Yuki fa. Ma il cui mondo interiore coi suoi moti emozionali non viene a meno. La ricca tavolozza di colori, caratteristica dello Studio Ghibli, disegna personaggi molto espressivi, nonostante i soli cinque minuti sullo schermo. Qui difatti è possibile scorgere la poetica cinematografica di Miyazaki. I temi della meraviglia della natura, l’importanza di una famiglia amorevole e il desiderio di capire se stessi sono tutti già sensibilmente incorporati.

Yuki’s Sun

Otto cortometraggi da vedere su Mubi: Strange way of life, 2023

Presentato al Festival di Cannes 76, questo corto di Pedro Almodóvar è un omaggio agli spaghetti western. Nei suoi trentun minuti mostra riserve profonde a livello sentimentale. La storia segue l’incontro dopo venticinque anni dei due amici Silva (Pedro Pascal) e Jake (Ethan Hawke), a seguito del ritorno del primo a Bitter Creek. Quest’ultimo è un cowboy estremamente carismatico, mentre l’altro uno sceriffo taciturno. In apparenza sembra un’amicizia di vecchia data, ma si scopre quasi subito che i due sono stati amanti.

Il cineasta sceglie di non puntare sulla sfera sessuale ma di concentrarsi su dettagli più suggestivi, come scegliere assieme i vestiti la mattina. Con flashback apprendiamo i retroscena tra i due uomini, toccando corde più fisiche e passionali. Ma la trama prende il sopravvento con segreti nascosti e sul vero motivo per cui il cowboy è tornato. È il secondo prodotto in lingua inglese del regista spagnolo, dopo La voce umana (2020) con Tilda Swinton, nonché il primo in ambiente d’epoca.

Strange way of life segna la collaborazione con Saint Laurent. Non è un caso l’indugio sulla maglia verde menta della maison spagnola indossata dall’attore cileno. Gli abiti della griffe diventano parte della storia, non sono usati a puro scopo promozionale. Il cortometraggio è stato girato nella città spagnola di Almeria, la stessa in cui Sergio Leone ha ambientato la trilogia del dollaro. La colonna sonora dello storico compositore del regista, Alberto Iglesias, comunica minacce e momenti melodrammatici in egual misura (con nostalgici rimandi a Morricone). In conclusione Almodóvar ha preso un genere, il western, piegandolo alle sue ossessioni di sempre. Quindi osserviamo il desiderio e il diverso modo in cui viene elaborato dalle persone. In salsa queer.

La fornaia di Monceau, 1962

Nel 1962, dopo il suo primo lungometraggio, Èric Rohmer realizza questo breve film, inaugurando così il suo stile, tecnico e tematico, che lo ha consacrato al mondo. La fornaia di Monceau è il primo di una serie di corti chiamati Sei racconti morali. Il protagonista (Barbet Schroeder), che coincide con il narratore, è uno studente di legge che si infatua di Sylvie (Michèle Girardon). Quest’ultima è un’elegante gallerista d’arte che incontra abitualmente per le strade parigine. Quando la donna sparisce, con un pretesto, inizia a frequentare un forno nel quartiere di Monceau. Con una scusa mette gli occhi su Jacqueline (Claudine Soubrier), la commessa del negozio dal fascino più grossolano rispetto alla prima. Quindi si crea un gioco di rapporti sentimentali ambigui e subdoli arditi dal giovane.

Rohmer rappresenta il dramma universale dell’amore e del desiderio, aprendosi anche a riflessioni più profonde sulla vita. Come ad esempio il rinvio del piacere nell’attesa del vero amore ma anche l’incontro casuale che determina un destino preciso.

Questo cortometraggio di ventitré minuti illustra in modo quasi schematico la tela comune ai seguenti cinque film. Mentre il narratore è alla ricerca di una donna, ne incontra un’altra su cui si sposta la sua attenzione, fino a che non ritrova la prima. Emergono l’inerzia, il cinismo, il conformismo sociale propri di chi racconta la storia, quindi del protagonista. La fornaia di Monceau anticipa quindi tutti gli argomenti che saranno il cardine del cinema del regista della Nouvelle Vague.

La fornaia di Monceau

Il ginocchio di Claire, 1970

Il corto del 1970 è il quarto dei Sei racconti morali. È forse quello che meglio rappresenta il fulcro di questa raccolta cinematografica, la lotta tra il credo di un singolo e i suoi desideri.

Ambientato in una pittoresca località lacustre della Francia, la vicenda ruota attorno a Jerome (Jean-Claude Brialy), un diplomatico di trentacinque anni in procinto di sposarsi. C’è poi Aurora (Aurora Cornu), una poetessa di origini romene. La donna vive con una signora e le sue due figlie, Laura (Beatrice Romand) e la sorellastra Claire (Laurence De Monaghan). La scrittrice tenta l’amico a cedere a segnali provocatori della ragazza più giovane. Quest’ultima è una complessa sedicenne che sta esplorando i turbamenti emotivi, tentando di sedurre Jerome. L’uomo pensa di essere la cavia letteraria della poetessa. Ma, incuriosito dai giochi provocatori attorno a lui, cede alle situazioni e al suo debole per la sorella di Laura. Da quando nota il ginocchio di Claire, il diplomatico cambia ancora registro. Assume una serie di atteggiamenti che lo porteranno a scontrarsi con se stesso e con le donne attorno a lui.

Come ne La mia notte con Maud (1969). Rohmer affronta il dissidio di un personaggio nel seguire gli impulsi, in contrasto con i suoi principi. Il fascino del film è nella caratterizzazione di Aurora, Jerome, Laure e Claire. Sono tutti soggetti caldi e complessi, con le ragazze che rivelano l’ambiguità della sessualità femminile e dell’indipendenza personale. L’arte di miscelare dialoghi profondi ad una fotografia, quella di Néstor Almendros, dei dettagli e del paesaggio è sublime. E ancora una volta il regista riflette gli aspetti emotivi, spirituali e sessuali delle persone, con la straordinaria capacità di far sembrare i protagonisti perfettamente a casa in un mondo in cui dialogo intellettuale e complessità morale convivono.

Quattro strade, 2021

Il lockdown del 2020 ha costretto i registi a diventare creativi. È il caso di Alice Rohrwacher che ha colto l’occasione per esplorare l’ambiente intorno a lei. È il mese di aprile 2020 e la natura si sta risvegliando. Un virus (il Covid19) ha chiuso in casa le persone impedendole di avvicinarsi l’una all’altra. La regista italiana decide di far visita ai suoi vicini. In una zona rurale del Lazio nell’altopiano dell’Alfina, dove vive, ha filmato quattro piccoli racconti. Ci sono persone immerse in attività da giardino, la figlia che fa la ruota, anziani che vivono in aperta campagna. Grazie al suo occhio magico, la cineasta riesce a far respirare libertà e senso di affetto in un momento storico che sembra chiudere e soffocare.

La piccola cinepresa in 16 mm, che Rohrwacher ha deciso di utilizzare, è perfetta per abbracciare la sincerità e il sentimentalismo del film. La stessa artista ammette goffamente di non avere destrezza con questo strumento, il che crea un’atmosfera familiare. A brillare davvero è il fulgore poetico che distingue il modo di fare cinema della film-maker umbra. Il micro-corto di otto minuti è sormontato da una partitura che si adatta alla sensazione tipica degli anni Sessanta: giocosa, leggera, con voglia di avventura e ingenuità infantile. Potrebbe sembrare una storia senza tempo, nostalgica, poiché esce dalla realtà tecnologica del presente per tornare alle origini, con la voglia di incontrare le persone, esperienza che incarna quindi il pensiero comune durante la quarantena. Quattro strade è un’ode alla vita del mondo rurale, ma anche all’importanza della vicinanza umana.

Quattro strade

Omelia contadina, 2021

Il corto di dieci minuti, presentato al Mostra del Cinema di Venezia 2020, segna la collaborazione tra Alice Rohrwacher e l’artista francese JR. Un gruppo di contadini decide di riunirsi per celebrare il funerale dell’agricoltura, nell’altopiano dell’Alfina, nell’alta Tuscia, a confine tra Lazio, Toscana e Umbria. Omelia contadina è una denuncia di come le monocolture abbiano umiliato il mondo contadino. Non a caso gli alberi appaiono schierati come le lapidi nei cimiteri di guerra. Ed è da tale forte immagine simbolica che i due autori inscenano simbolicamente la morte di questa cultura millenaria. Le salme sono quattro gigantografie di contadini (la cui forma è propria dell’arte di JR) trasportate in una processione.

A Venezia 77, nelle acque della laguna, è stato riprodotto questo processo (funerale, funzione e sepoltura) per rendere visivamente il senso del film, che cerca di dar voce a chi vive nell’altopiano laziale. Una realtà soffocata ormai dall’industria agraria che ha rotto il legame tra uomo e natura. Quest’ultima è stata amica e nemica di queste popolazioni, facendosi promotrice di libertà ma in altri casi anche di oppressione. Ciò che però è certo è che l’essere umano col tempo è riuscito a creare un rapporto di comunicazione unica con madre natura. Quindi il cortometraggio vuole essere anche una speranza, difendendo un mestiere fondamentale da preservare.

Verso il finale si carpisce un tema più grande alla base di tutto, proprio del cinema di Rohrwacher: il progresso industriale che polverizza le persone, calpesta gli uomini semplici, rende polvere le professioni umili. Ma la voce di queste categorie non deve essere dimenticata, poiché da loro viene la nostra storia e chi siamo oggi.

Omelia contadina

Lick the Star, 1998

Lick The Star di Sofia Coppola anticipa i temi cari al suo cinema. In soli tredici minuti la regista cattura i sotterfugi mentali delle adolescenti in continua evoluzione per avere accesso alle cose per più preziose: ragazzi e alcol. Il dramma si svolge in una scuola superiore dove Chloe (Audrey Heaven) è una tipica protagonista coppoliana: giovane, annoiata e fraintesa. Attraverso gli occhi dell’amica Kate (Christina Turley) scopriamo che Chloe ha ideato un complotto, ispirato al romanzo Flowers in the Attic: vuole indebolire alcuni compagni mettendo veleno per topi nel cibo, poiché stufa di essere usata da loro. La sequenza bombastica in cui compare il titolo e la colonna sonora punk torneranno in Marie Antoinette (2006) e in Bling Ring (2013). Mentre l’inquadratura di Kate fuori dal finestrino ricorda una scena di Bill Murray in Lost in Translation (2003).

Nonostante il film sia in bianco e nero e Coppola sia nota per paesaggi onirici riccamente colorati, l’uso del bianco non rende meno. Difatti, grazie all’illuminazione morbida, si crea un gioco di luce screziata che illumina i volti delle giovani, a prescindere dal colore.

Il corto del 1998 porta sullo schermo la profondità puerile, quella melodrammatica tipica degni anni acerbi. Ed è questa esagerata serietà che conferisce autenticità alla storia. La regista tratta le emozioni e le vulnerabilità delle protagoniste con un rispetto adulto, quello che gli viene spesso negato dai grandi. In Lick The Star, come in altre opere, la figlia d’arte cattura la tensione, l’angoscia e la rabbia mal indirizzata proprie delle fanciulle. Rendendosi pure conto che questo è un mondo ancora troppo maschile.

Il fascino di raccontare l’estetica delle ragazzine tristi e incomprese è diventato una caratteristica distintiva dello stile autoriale dell’americana, cristallizzatosi poi nel primo lungometraggio, Il giardino delle vergini suicide (1999), dove i dissidi tra mondo maturo e adolescenziale sono centrali. In sintesi, nel primo corto della cineasta, si scorge già la sua capacità straordinaria di raccontare la malinconia giovanile femminile. Non a caso è stata centrale nella formazione di idee sull’identità e sul sé per generazioni intere di ragazze, un qualcosa di unico oggi.

Two Ships, 2012

Sin dagli inizi Justine Triet ha dimostrato di essere una notevole osservatrice dei comportamenti dei singoli. Ma anche di come questi si muovano all’interno di comitive. Difatti in Sur place (2007) e in La Bataille di Solférino (2013) ci sono situazioni di folle alternate a gruppi piccoli, mentre nel mediometraggio Des ombres dans la maison (2010) c’è una comunità dentro una favela. Il premio Oscar non viene a meno a questa caratteristica di racconto anatomico neanche nel suo quarto cortometraggio: in Two Ships il giovane pittore Thomas è squattrinato e poco incline ai sentimenti, Laetitia è un’attrice perduta e ingenua. Si conoscono ad una festa e, non riuscendo a stare da soli, si abbandonano al clima scanzonato della serata. Finché un evento drammatico non rompe questa leggerezza. Sarà solo allora che, inaspettatamente, i due instaurano un rapporto diverso.

Nel breve film il primo assembramento che si incontra è formato da trentenni che si divertono col drink in mano. Il modo in cui il protagonista maschile approccia quello femminile è piuttosto rude. Questo grande ragazzo, dagli occhi dolci e dall’aspetto trascurato, intreccia il suo sguardo con la loquace giovane. Il party, che trasuda di alcol, tabacco e dialoghi provocatori, diventa il parco giochi in cui i due personaggi principali entrano ed escono dalla scena. Il secondo nucleo che si incontra è la famiglia di Thomas. Il nonno e il padre, con cui il pittore condivide l’appartamento, sembrano usciti da un film dei fratelli Coen. I due accolgono l’attrice con battute, dandole confidenza. Il nido familiare di Laetita è suo fratello Eric, con il quale vive e che soffre di schizofrenia. Quella sera la salute di quest’ultimo diventa l’elemento di rottura.

Infine il gruppo di riferimento sono proprio i due trentenni. Thomas,

in modo leggero, e Laetita, in modo più drammatico, si legano per sfuggire alla gravità dei loro cari. Forte di un romanticismo scompigliato e non immediato, sarà proprio questo legame divenuto speciale in una notte il vero cuore del film. La protagonista, mentre deve far fronte ai problemi del fratello, straparla e ride. Lo stesso fa il suo compagno di avventura. La portata drammatica è stemperata. La regista riesce a comunicare l’assurdità, l’angoscia, il dolore su un filo teso tra leggerezza e disperazione, da cui non cade mai.

In trentun minuti la mente di Anatomia di una caduta (2023) ha saputo spiegare la meccanica che governa un gruppo, con i movimenti che lo animano. Allo stesso modo in cui ha saputo rendere l’isolamento di un individuo circondato da altri. Difatti in Two Ships troviamo tutto il potere del cinema di Triet: farsi minuscola di fronte all’enormità del reale.

Two Ships

Otto cortometraggi da vedere su Mubi: altri titoli

Per chi fosse interessato, su Mubi sono visibili tanti altri cortometraggi. A partire dalla storia del cinema letteralmente con Viaggio nella luna (1902) di Georges Méliès, considerato il primo esperimento cinematografico di fantascienza, in versione restaurata e colorata. Si trovano anche gli altri quattro dei Sei racconti morali di Èric Rohmer. Quindi La carriera di Suzanne (1963), La collezionista (1967), La mia notte con Maud (1969), L’amore il pomeriggio (1972).

Dal cinema europeo ci sono alcuni esempi autoriali unici. In Nimic (2019) di Yorgos Lanthimos, la storia di un violoncellista serve a gettare metafore sull’oggi, con il solito effetto disturbante proprio del cineasta. Spicca anche Autobiografical Scene Number 6882 (2005) di Ruben Östlund, in cui un tuffo dal ponte dimostra il coraggio legato alle dinamiche di condizionamento sociale. Da segnalare anche diversi lavori di Aki Kaurismäki. Tavern Man (2012) è un’analisi senza dialoghi sui sogni mai realizzati. Lo stile caustico e profondamente umano del maestro finlandese si fonde nei brevi film sui Leningrad Cowboys, una cover band bislacca a cui capitano disavventure. Il più interessante di questi è Leningrad Cowboys go America (1989).

Non di minore importanza anche la serie dei trentotto micro-corti Green Porno (2009), con protagonista Isabella Rossellini. Nelle vesti di professoressa di biologia l’attrice racconta, in modo ironico e visivamente accattivante, le abitudine meno conosciute del mondo animale. Degno di nota anche il drammatico Good Thanks, you? (2020) di Molly Manning Walker. La regista decide di mostrare le conseguenze di una violenza fisica, argomento cardine anche del suo lungometraggio successivo How to Have Sex (2023). Insomma, Mubi ancora una volta si distingue per una scelta entusiasmante e variegata di proposte che non lasciano di certo indifferente.

Otto cortometraggi interessanti da vedere su Mubi

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