Presentato in anteprima nazionale alla 70a edizione del Taormina Film Festival, Twisters di Lee Isaac Chung, dal 17 luglio nelle sale italiane, è il sequel stand-alone (a sé stante) di Twister (1996) di Jan de Bont, che quasi trent’anni fa con i suoi tornado avvinghiò le masse in cerca di altalenante adrenalina e che fu il secondo maggior incasso al botteghino di quell’anno. Oggi l’operazione del regista statunitense di origini sudcoreane insieme alla Warner Bros. punta ovviamente a rinforzare le casse con un prodotto aggiornato, grazie agli effetti digitali più sofisticati, per un’immedesimazione viscerale di tensione e spettacolarità. Daisy Edgar-Jones (Normal People) e Glen Powell (Top Gun: Maverick) rivestono ruoli vagamente ispirati a quelli che furono di Helen Hunt e Bill Paxton, personaggi creati da Michael Crichton.
Nessun twist in una trama da comfort zone
Kate Cooper (Daisy Edgar-Jones), giovane ex studiosa di microfisica delle nubi e cacciatrice di uragani, lavora placidamente a New York City, accantonate ormai le missioni più pericolose dopo un incidente durante un terribile tornado, da cui uscì quasi illesa e tre compagni trovarono invece la morte. Ma un amico di vecchie avventure, Javi, la convince a ritornare sul campo per collaudare un nuovo sistema di tracciamento.
Pur con qualche riluttanza per ricordi ancora dolorosi, Kate accetta e il suo coinvolgimento nella stagione delle tempeste in Oklahoma si rafforza con l’incontro con lo spericolato e fascinoso Tyler Owens (Glen Powell), star dei social media e cercatore di calamità atmosferiche. Attendono Kate nuove sfide e rischi mortali, che metteranno alla dura prova i fantasmi del suo passato e risveglieranno sogni dimenticati, con al fianco Tyler che la arruola in una lotta per la sopravvivenza, tra passione scientifica, brividi elettrizzanti e autorealizzazione.
Spettacolarità bidimensionale
Twisters persegue tutti i meccanismi del disaster movie, del kolossal da botteghino, dell’epica commerciale hollywoodiana, con una narrazione che decolla solo nella seconda parte, quando non casualmente la scrittura si piega su risvolti più intimistici, indagando il lutto non elaborato di Kate per gli amici scomparsi e il suo personale senso di fallimento per un progetto scientifico ancora tutto da perfezionare.
Nonostante il film conceda sequenze di disciplinata messinscena che conseguono la loro efficacia emotiva e la regia si mantenga ben salda all’economia del racconto, Lee Isaac Chung (candidato all’Oscar per Minari) non infonde una vertigine estetica e una rottura delle forme espressive in consonanza con la dirompenza del soggetto e in auspicabile emancipazione con il modello precedente del 1996.
Twisters o l’ultramoderno Prometeo
Eppure questo prodotto di genere che punta a reazioni immediate, che si accomoda su un plot già rodato senza deviazioni di originalità alcuna, che elegge nei suoi produttori dei co-autori (artefici delle saghe di Indiana Jones, Jurassic Park e Bourne) riesce a instillare in una sequenza un’idea di cinema, una riflessione più metaforica sull’interrelazione tra tecnologia, natura e mezzo filmico, attraverso una citazione insistita di Frankenstein (1931) di James Whale, in una tachicardica scena d’azione in una sala cinematografica.
Creando un parallelismo unisono tra il grande classico dell’horror e la storia in corso, Lee Isaac Chung inverte in realtà in controluce la mostruosità della tecnologia nel rapporto con l’umano, che era suggerita dai tempi di Mary Shelley, autrice di Frankenstein o il moderno Prometeo (1816-1817). Ne consegue qui un trionfo della tecnica sulla natura, un’artificiosa manipolazione dominante in cui il mezzo è l’uomo e non la macchina, una fiducia troppo sconfinata nella (fanta)scienza, un modesto tributo alla settima arte e alle potenzialità del suo immaginario più rocambolesco possibile, ma senza sovrastrutture filosofiche, né aperture a sofisticate ambiguità morali di sottofondo.
A differenza del predecessore Twister, la natura non solo non primeggia al fianco dei personaggi (e si rinuncia con programmatica indolenza a filmare l’oggetto più sfuggente che si possa percepire poeticamente al cinema, ovvero il vento), ma latita una dimensione politica e civile sulla responsabilità ambientalista, nel 1996 appena suggerita e nel 2024 doverosa.
Twisters è insomma intrattenimento genuino, uno svago che non osa e non sperimenta come i suoi protagonisti nonostante il suo armamentario di risorse cinematografiche e che è però in grado di compiacere il pubblico in cerca di emozioni forti ed effimere, di immagini avvincenti e fin troppo nitide, malgrado il continuo maltempo sullo schermo.