Grazie al restauro della Warner Bros. e della benemerita Film Foundation di Martin Scorsese, sul grande schermo alla 38a edizione del Cinema Ritrovato rifulge nel suo avvolgente e sinuoso bianco e nero e nel suo manto di angosciosa e pressante ambiguità Atto di violenza (1948) di Fred Zinnemann, il regista consegnato agli onori del pubblico per Da qui all’eternità (1953) e Giulia (1977).
Dopo aver indagato sui sacrifici e sulle compromissioni tragiche dell’uomo americano sulle ceneri della Seconda guerra mondiale con i precedenti Occhi nella notte (1942) e Odissea tragica (1948), Zinnemann (1907-1997), regista austriaco di origine ebraica, con Atto di violenza si inoltra con mestiere nella messinscena più compiutamente noir e assegna alla sua cinepresa l’onere di mantenere viva e cosciente la memoria della crisi psicologica ed etica dei veterani di guerra ritornati da un’Europa tutta da ricostruire, in un’America altrettanto smarrita e incupita dietro la facciata sorridente e consumistica.
In una trama di colpe inconfessabili e ferite brucianti, il film si avvale della fotografia di forte impatto chiaroscurale di Robert Surtees e delle interpretazioni di Van Heflin e Mary Astor. Una piccola gemma da rivedere, anche per le influenze su thriller contemporanei, come Nome in codice: Broken Arrow (1996) di John Woo e A History of Violence (2005) di David Cronenberg.
Atto di violenza, sinossi
In California, a Santa Lisa, Frank R. Enley è un uomo rispettato dalla comunità, eroe della seconda guerra sopravvissuto ai campi di prigionia nazisti, ora amorevole padre di famiglia, con la sua graziosa moglie e il figlioletto. Una casa in perfetto stile americano e una professione redditizia appuntano un quadro di idillio personale e domestico.
Dalle nebbie di un passato tragico emerge però un inquietante figuro zoppicante, un compagno di Enley, Joe Parkson, sopravvissuto al medesimo campo, che cerca, bracca, minaccia l’ex amico, con lo sgomento disorientato di Edith, la moglie di Enley. Quest’ultimo però, di fronte all’incalzare del pericolo di Parkson, bellicoso e addirittura armato, svela alla consorte una scomoda e infamante verità sulla sua sopravvivenza presso i nazisti, con la svendita dei suoi compagni per salvarsi lui solo, in un eccidio dei commilitoni da cui uscì quasi illeso e per circostanze fortuite solo Parkson, irremovibile nella sua sete di vendetta.
Inizia così una caccia al topo per Enley, assistito dalla moglie sempre più spaventata e appoggiato da un manipolo di gangster e gente di malaffare pronti a lucrare sulla situazione, dove Parkson dipana a distanza ravvicinata tutti gli assilli etici e le colpe inappellabili e insabbiate del suo compagno di sventure. Fino a un finale di giustizia provvidenziale che non riscatta nessuno in questa America sconfitta, nemmeno Parkson.
Atto di violenza, il noir con le sue deviazioni
In Atto di violenza i codici figurativi così costitutivi del noir sono immediatamente catalogabili fin dalla sequenza d’apertura: le strade poco rassicuranti della città spettrale, uno sconosciuto in impermeabile che con la sua gamba invalidata cicatrizza su di sé un obliquo vissuto, una pistola facilmente maneggevole e una fotografia marcatamente chiaroscurale di grigiori e ombre, che assorbe nei primi minuti l’incombenza di una minaccia che si preannuncia perenne e insolubile, di una Giustizia torva.
Ma se Atto di violenza si accomoda con un’aderenza iconografica gustosamente classica sui meccanismi e sugli stilemi del genere (la corruzione intrinseca per un peccato originario, l’incursione del gangsterismo, l’inseguimento in un labirinto di strade tutto psicologico, la fatalità in amore, un epilogo sanguinoso che non redime), come ogni grande opera che si rispetti sa anche deviare dal rodaggio più consueto in quegli anni di fioritura non programmatica del noir, per discostarsi con soluzioni alternative e inventive.
I personaggi, le white lady
Eludendo il rischio di un esercizio sperimentale di maniera, Zinnemann integra tocchi inconsueti nella definizione dei personaggi e della relativa scelta del cast, nella messinscena di una realtà sociale che intacca sottilmente le friabili fondamenta del mito del Sogno Americano, su cui ombreggiano i fantasmi di un conflitto geograficamente lontano, ma da anni contaminante il sistema.
Così, forse in osservanza ai pilastri moralistici dello studio di produzione M-G-M (da cui non ci aspetteremmo un prodotto così nero, d’ appannaggio della Warner Bros. di quel decennio), il film ridisegna la figura femminile, che sfugge dall’orbita della dark lady, sensuale, tormentata e spregiudicata. In controcorrente con la proliferazione di peccaminosi e perduti angeli con la pistola incarnati dalle star più rappresentative di quegli anni (da Barbara Stanwyck a Rita Hayworth), Atto di violenza affida la forza del sentimento e il degno bilanciamento dei maschi problematici, vendicativi e traditori del racconto a due donne ragionevoli che incarnano con la loro umiltà e umanità la luce, ancora fioca, di un’altra America possibile: la moglie di Enley, interpretata da una giovanissima e rassicurante Janet Leigh, e l’ex fidanzata reietta di Parkson, che ha il volto di Phyllis Thaxter.
Anche la prostituta impersonata da Mary Astor, il personaggio femminile più a fuoco, appanna le aspettative sul desiderabile prototipo della femme fatale, caricando sul suo fisico sfiorito la filosofia di un’esistenza già votata alla sconfitta. È sua infatti la battuta più memorabile della pellicola:
“Quindi sei infelice. Rilassati, nessuna legge dice che devi essere felice”.
Lo spazio, allegoria oscura dell’America
Fred Zinnemann impasta il suo noir nelle tenebre dell’Incubo di un’America ancora inconsapevole dei traumi rimossi dopo il conflitto, come un sonnambulo che vaga ondivago con piedi d’argilla (o zoppicanti, come quello di Parkson) su un benessere di way of life solo apparente. Come Enley che arranca per le strade solitarie gridando al vuoto dell’oscurità la sua crisi personale. Non solo la città quindi è tagliata da luci nette e immersa in una notte senza fine di allibratori e appuntamenti mortali, non solo la città è eletta per antonomasia a spazio di disavventure, mistero e perdizione, fantasmi dell’inconscio, ma le stesse mura domestiche si fanno microcosmo in scala ridotta di quel disagio epocale.
La cinepresa di Zinnemann definisce uno spazio filmico di interni dove luce e buio si compenetrano e alternano come simbolo di allarme, svelamento, morte, dove le stanze, le scale, le porte, diventano sineddoche della prigionia bellica e ancora di più di oppressione di un segreto compromettente, che ribalta la prospettiva benpensante dell’uomo borghese. Una regia che non lascia tregua, marca e fronteggia i suoi personaggi, con cui sa comunque intrattenere empatia, che centra come un treno in corsa il bersaglio del suo ultimo atto drammaturgico, con un equilibrio narrativo che tutto tiene e nulla concede al caso nella sua precisione formale.
Conclusioni
Atto di violenza è un film che fin dal titolo pone il relativismo e la pluralità di pensiero come imperativo etico, dove la violenza appartiene ai vinti ma anche alla rabbia cieca degli sconfitti; è un appello democratico di ricostruzione dalle macerie invisibili ma indelebili attraverso una fratellanza e uno spirito di solidarietà che rifugge comunque ogni semplicismo, ogni tentativo di scontata assoluzione od oblio. Con un finale struggente e inesorabile che chiude il cerchio, lascia agli spettatori l’onore di scegliere una delle chiavi di lettura, nella pastosità d’immagine impregnata di un fato già scritto dai suoi protagonisti fin dall’inizio.