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“Soğuk” / “Cold” di Ugur Yucel – 63esimo Festival Internazionale di Berlino (Panorama)

“Soğuk”, alias “Cold”, nasce e si sviluppa sorretto e ‘giustificato’ dal suo latente soggetto: il freddo. Un freddo che paralizza corpi ed esistenze, schiacciate in un immobilismo fisico e mentale

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Anno: 2013

Durata: 105′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Turchia

Regia: Ugur Yucel

 

L’unico solco è quello già tracciato

Ho ben impattato nella sezione Panorama (la più indipendente della Berlinale) con la pellicola d’atmosfera di Ugur Yucel, attivo prevalentemente come attore (diretto anche da Fatih Akin in Soul Kitchen), esordendo alla regia dal 1990. Soğuk, alias Cold, nasce e si sviluppa sorretto e ‘giustificato’ dal suo latente soggetto: il freddo. Un freddo che paralizza corpi ed esistenze, schiacciate in un immobilismo fisico e mentale.

Kars è una piccola città turca ai confini con la Georgia, il cui isolamento è in primis fisico-geografico. Un luogo dove, apparentemente, non potrebbe viverci alcun essere umano. Così esposto alle forze della natura, all’inclemenza, al rigore, all’indeterminatezza di un clima livellatore, a cui ci si può solo sottomettere. Incastrati in questo pezzo di mondo, le vite si trascinano cercando di farsi strada, come possono. Balabey (un ipnotico Cenk Medet Alibeyoğlu ) è un guardiano delle rotaie: controlla, facendosi varco tra la neve con i suoi passi, che il percorso del treno non abbia ostacoli. È lui che decide se un treno può o no passare. Solitario, chiuso in uno stato mentale conseguenza di una depressione, Balabey vive in un mondo tutto suo. Amico e confidente di un tacchino che custodisce e cura con attenzione, è prossimo a diventare padre per la terza volta. Non ha mai conosciuto altra donna all’infuori di sua moglie. Balabey ben manifesta, simbolicamente, un passaggio esistenziale di tappe dovute, ma neutre, subite. Improvviso e inaspettato, arriva l’amore. Del corpo e della sostanza di Irina, giovane prostituta russa, la cui bellezza e innocenza toccano Balabey in una maniera nuova e sconosciuta. La giovane donna, in procinto di tornare in Russia, accoglie l’amore puro di Balabey senza comprenderne il reale spessore, o meglio, nel disincanto dell’impossibilità di cambiar percorso ad un destino già tracciato. Balabey è il solo abitante di Kars a sperimentare un risveglio, l’energia di una possibilità, di una via d’uscita anche solo ideale, ma di cui avverte la presenza. E che gli altri non possono afferrare, schiacciati da bisogni e sogni che hanno imparato ad accogliere per quello che sono, nella loro astratta impossibilità di esistere. Così è per suo fratello e sua moglie, beffati dal matrimonio che ad entrambi non ha portato un desiderio e un amore cullato nelle diverse aspettative nutrite, così sarà per Irina e le sue due sorelle prostitute, vinte da una realtà da sempre più forte di qualunque illusoria  rinascita. Il freddo ‘rimetterà’ ‘ tutto a posto’, concedendo a Balabey la vendetta verso chi ha stroncato il suo sentire per la prima ed unica volta nella vita.

Yucel ‘deborda’ dallo schermo parecchie volte con il suo treno, demiurgo possente di ferro che taglia e decide della vita e della morte, unica via di fuga da un inferno di ghiaccio e neve per i suoi abitanti, destinati sempre ad essere portati indietro, a restare sottomessi, cercando la propria felicità negli interstizi di un buio-impotenza che li contiene. Sentiamo, palpiamo tutta la forza del freddo, la sua implacabilità, nelle immense panoramiche, estensioni visive a cui veniamo sottoposti, nel contrapposto ed onirico calore fotografico che la dimensione chiusa dei luoghi dove si deposita il sogno tenta , invano, di afferrare.

Maria Cera 

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