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“Prince Avalanche” di David Gordon Green – 63esimo Festival Internazionale di Berlino (In Concorso)

“Prince Avalanche” è un ritorno alle origini dell’eclettico regista indie americano, di piccola e silenziosa poesia.

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Anno: 2013

Durata:94′

Nazionalità: USA

Regia: David Gordon Green

 

La strana linea gialla della vita  

La metafisica landa di David Gordon Green apre la mia visione delle pellicole in competizione di questa Berlinale 63. Prince Avalanche è un ritorno alle origini dell’eclettico regista indie americano, di piccola e silenziosa poesia. Folgorato dal trailer e da alcune clip di Either Way, commedia ‘nera’ di Hafsteinn Gunnar Sigurðsson, il regista americano ha deciso di imbastire una storia che riproduce esattamente il canovaccio della propria ispirazione. Traspone in Texas un pezzo di esistenza tragicomica di due esseri umani agli antipodi (ma non troppo). Gettati in un ‘limbo post atomico’, frutto di un terribile e straordinario incendio che ha raso al suolo 43.000 acri di terra e 16.000 case, Alvin (Paul Rudd) e  Lance (Emile Hirsch) ci introducono nella loro alienazione bizzarra e rivelatrice. I due ridanno vita a ‘strade perdute’- fuse in un paesaggio di esistenza bruciata e dimenticata – ricomponendole nella forma e nella identità, ‘tatuandole’ nella segnaletica e nell’incisione-demarcazione di accessori un tempo propri, nel tempo della vita da strada.

Alvin è il boss, e rimarca la sua posizione di comando in un’importante rivendicazione: la musica che accompagna il loro giallo tratteggio, lento e ispiratore (per chi guarda). Assoluto e ‘falso’ (apparente) propugnatore della solitudine, Alvin rimane attaccato alla terra che disegna e all’arso, bucolico, bosco che la contiene, cercando di trovare nel passato che ancora resiste dentro i resti di case, in una natura segnata ma risorta, linfa, segreta, pace al suo bastare a se stesso. Ama da lontano la sua donna, astraendo e fornendo uno spessore ad una relazione (forse) temuta in un reale e concreto vivere e condividere: “L’amore è un fantasma, tutti ne parlano ma nessuno lo ha mai veramente visto”, scrive alla sua bella.

Lance, più giovane, più goffamente e coraggiosamente attaccato al mondo, gli si contrappone come abile spalla (anche nei paradossali duetti-scontri che li coinvolgono, generati il più delle volte da piccoli eventi-assurdità). Lance vuole entrare a tutti i costi nella vita, anche se gli affondi-tentativi che genera sono mediamente disastrosi. Il guru Alvin verrà sconfessato nel suo isolamento: neppure il distacco riesce a dare corpo a un ideale di amore e di vita destinato inevitabilmente a lasciare il segno, a toccare… Lance ha forse una chance di crescita da una lieta (ma non troppo) gravidanza di cui è vittima… Prince Avalanche genera un solco sottile ma palpabile, nell’apparente leggerezza-svagatezza indie, marcatamente sovra impressa in una messa in scena dominata in primis dalla musica ‘beatifica’ di David Wingo (collaboratore frequente di Green) e degli Explosions In The Sky, ‘espansa’ da una fotografia levitante quando serve, in generale attaccata saldamente a un sospeso immanente al reale. La macchina da presa segue identico ritmo, adattandosi nella fissità agli istanti ‘da cartolina emozionale’ che deve rendere (quando serve) e rivelando, nelle riuscite carrellate di dimensione che compie, un’esistenza impossibile da raggiungere, inutilmente anelata nel senso, qualsiasi esso sia, che l’essere umano disperatamente cerca di cogliere.

Maria Cera

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