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Underground

Macchie Solari – Festival delle scritture cinematografiche: Cinema e Censura

“Occhio non vede, cuore non duole!” È partita da questa saggezza per poveri di curiosità cui il buon senso comune ricorre per edulcorare e azzittire ogni spirito critico, la sesta edizione del Festival delle scritture cinematografiche, organizzato dal cineclub Alphaville ed incentrato sul rapporto tra cinema e censura.”

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“Occhio non vede, cuore non duole!” È partita da questa massima da decostruire, da questa saggezza per poveri di curiosità cui il buon senso (?) comune ricorre per edulcorare e azzittire ogni spirito critico, la sesta edizione del Festival delle scritture cinematografiche, organizzato dal cineclub Alphaville ed incentrato quest’anno sul rapporto tra cinema e censura.

Rapporto mai risolto ed anzi suscettibile sempre di nuovi capitoli, poiché molta parte della pratica cinematografica, quella non domata dalle leggi del mercato, ha esattamente nel “andar a vedere” e nel “far vedere” la propria “missione” esistenziale, ovvero quanto di più scomodo e più intollerabile possa risultare al Potere invece tanto ipocritamente attento a non procurar dolore.

Se buona parte dei film che negli anni scorsi hanno subito tagli o divieti veniva “punita” per questioni legate al contenuto ( e principalmente legati al trinomio sesso, politica, religione) oggi è la censura si abbatte più sulle forme, negando fin dalla nascita (ovvero negando i finanziamenti in fase produttiva) quei progetti che tentano di discostarsi dalla confezione standard facilmente gestibile e vendibile sul mercato.

Ad inaugurare le proiezioni di una rassegna che ha riproposto molte pellicole dalla storia travagliata (da Freaks e L’age d’or passando per il Salò pasoliano, per Ultimo Tango a Parigi e per l’ultimo film italiano proibito in sala, Totò che visse due volte, di Ciprì e Maresco) è stato scelto Macchie solari, lungometraggio di Armando Crispino uscito nel ’75 dopo aver subito una revisione censoria ed ancora oggi vietato in Italia ai minori di 18 anni per presunto eccesso di violenza visiva e di immorale scabrosità.

Nel clima rarefatto della Roma d’agosto, svuotata del traffico, disconnessa dai soliti ritmi urbani e consegnata in pasto alle suggestioni deliranti che nascono dalla noia e dall’influenza nefasta che l’attenzione mediatica esagitata nei confronti della cronaca nera può provocare, Macchie solari è un film che inserendosi senza grosse pretese eversive in un genere che in quegli anni stava subendo il passaggio dal thriller più convenzionale ai primi horror di gran successo (Profondo Rosso di Argento e La casa dalle finestre che ridono di Pupi Avati sono di quegli anni), prendendo in prestito la metafora apocalittica d’un soffocamento per eccesso di calore solare, attraverso l’erotica fragilità del corpo di Mimsy Farmer (nel film una giovane patologa che lavora in obitorio) e lasciando largo spazio alle musiche di Ennio Morricone, mette in scena una rappresentazione della paura (o meglio d’una psicosi collettiva) non molto distante da quella che circola ai giorni nostri.

La perversione di un desiderio sempre problematicamente inappagato, la violenza in incubazione nelle dinamiche relazionali costantemente allucinate, la difficoltà di distinguere il piano del reale da quello delle più irrazionali proiezioni mentali, il sentore di morte presente anche concretamente attraverso i numerosi corpi nudi, macabri, sezionati di cui prendiamo visione, penetrano l’aria di quest’opera, facendone qualcosa di più della storia di un insospettabile assassino alle prese con un testamento multimilionario da riconquistare a colpi di inganni e di cadaveri eccellenti.

Salvatore Insana


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