La storia del finto generale Fortebraccio Della Rovere, la cui vicenda filmica affonda la sua consistente traccia di verità nel racconto che Indro Montanelli fece a Roberto Rossellini, svolge la sua trama in un’Italia profondamente ferita dal regime fascista e dagli anni di guerra. Dopo la caduta di Mussolini e l’8 settembre ci si ritrova a fare i conti con il tentativo repubblichino e la feroce occupazione nazista. In questo contesto si muove la lotta partigiana alla quale partecipano un po’ tutti: dai comunisti, ai liberali, ai cattolici, ai monarchici, fino ad alcuni reparti di quello che rimane del Regio Esercito. È lo scenario nel quale si sviluppa il racconto di Indro Montanelli, poi sceneggiato e articolato dalla regia di Roberto Rossellini. Al centro dell’attenzione è collocato uno dei tanti sbandati del periodo, Giovanni Bertone, che nella finzione cinematografica diventa Emanuele Bardone. Scaltro e opportunista, per necessità e per vocazione, abile nel mimetizzarsi nel caos del momento e ad assumere le identità più disparate. Il Generale Della Rovere, prodotto da Zebra Film e dalla Société Nouvelle des Établissements Gaumont è in sala nel 1959, anno del Leone d’Oro, ex aequo con La Grande Guerra di Monicelli, alla XX Mostra del Cinema di Venezia. Nel 1960 riceve il Nastro d’Argento per la miglior regia e il David di Donatello per la produzione.
Fatti e relazioni
Emanuele Bardone ha corrotto la sua vita, imbrogliando e trafficando con le altrui esistenze, allo scopo principale di sopravvivere e sostenere i suoi continui debiti di gioco. Nella Genova della Repubblica di Salò cambia identità spacciandosi spesso come il colonello Grimaldi. Un ufficiale in grado di negoziare con i tedeschi liberazioni o pene detentive attenuate per i prigionieri italiani. Una messinscena che Bardone conduce con la complicità di un sottufficiale della Wehrmacht fino a quando, suo malgrado, viene scoperto e arrestato. Portato al cospetto del colonello Muller, da lui già incontrato casualmente proprio all’inizio della pellicola, gli si paventa un’insperata possibile via di salvezza. L’incauta uccisione del generale badogliano Giovanni Braccioforte Della Rovere, da parte di una pattuglia nazista, porta l’alto ufficiale tedesco a concepire un astuto piano con Bardone interprete principale. Tenuta segreta la notizia della morte del generale, sarà lui a prenderne le sembianze all’interno del carcare milanese di San Vittore. Con lo scopo di svelare i legami e i capi della Resistenza locale.
Il Generale Della Rovere: la forza dell’inespresso
Al di là della grande interpretazione di Vittorio De Sica, nei panni di Bardone/Della Rovere, il film di Rossellini è connotato dalla capacità di concentrare la sua potente forza narrativa nelle sequenze in cui domina l’inespresso. Ne Il Generale Della Rovere ogni oggetto ha un senso, ogni scena assume un significato, una determinazione. Si sottolinea la volontà dei protagonisti attribuendo capacità interpretativa a tutto ciò che gravita nel campo della macchina da presa. Una concordanza assoluta di fatti, cose e personaggi aviluppa la trama, tingendone le immagini dell’afflato evocativo figlio degli stessi suoni ambiente. Persino il calpestio dei differenti passi si configura in una descrizione ampia e dettagliata di un presagio amaro, sfumato da una potente carica impressionista. Si compone senza mai perdere di vista lo spartito più significativo, quello che disvela l’arsura dei sentimenti nell’impareggiabile confronto con i piccoli gesti del quotidiano. La figura di Bardone ne è maggiormente investita, usufruendone appieno. A cominciare dall’incontro con la sua ex amante Olga, fino al biglietto d’addio scritto per la famiglia Della Rovere.
Un altro Neorealismo
Il ritorno di Roberto Rossellini, a una produzione prospicente i suoi primi grandi successi legati alla dimensione neorealista, fu salutato dalla gran parte della critica alla stregua del ritrovato figliol prodigo. In realtà, Il generale Della Rovere è qualcosa di più di un semplice attingere al passato glorioso. È un’evoluzione significativa del genere. Semmai sia davvero lecito parlarne in questi termini. L’analisi introspettiva della figura di Bardone domina con la sua umanità e il suo processo catartico. Tutt’attorno ogni cosa appare come uno sfondo necessario. I personaggi minori, persino le comparse, sono funzionali all’elaborazione della personalità del protagonista. Fin dall’incipit il mosaico comincia a comporsi. Il volto di De Sica è la mappa giusta per non smarrire il sentiero che conduce nelle recondite atmosfere che squassano la ragione e dettano al cuore il rigore per imporre il suo volere. Il tema dell’inganno, che domina soprattutto la prima parte della pellicola, è la patina superficiale che, supportata dalla profondità di campo e dal piano sequenza, manifesta la natura intrinseca, l’umanità, la descrizione di una vita che è il senso stesso del racconto.
La rappresentazione
Il generale Della Rovere supera ogni tipo di implicazioni legate alla trama . Comprese le polemiche che, anche a distanza di anni, coinvolsero Montanelli e gli altri sceneggiatori: Diego Fabbri e, in particolare, Sergio Amidei. Mentre Montanelli non amava molto la strumentalizzazione del protagonista, dotato, a suo dire, di una crescente vocazione patriottica non corrispondente alla sua bieca natura di truffatore. Amidei lo accusava di plagio, imputandogli l’inserimento, nel suo romanzo omonimo, di ampie porzioni della sceneggiatura. Quel che è certo è che l’essenza del film di Rossellini va oltre la rincorsa verso significati, attribuzioni e analisi sociologiche. Si concentra sull’uomo e sulla sua condizione in un contesto di assoluta disperazione. Sotto traccia, un refolo espiatorio compone le ultime tessere del puzzle biografico di un individuo che di colpo trova l’occasione per regolare definitivamente i conti con il passato e la sua coscienza. Come ogni personaggio maledetto che si rispetti il gioco delle inquadrature, delle espressioni, degli stessi ambienti in cui opera, riflette la rappresentazione del presagio. Quello che sarà è dettato passo passo con una grande abilità nel rendere sempre più nitida la personalità del personaggio.
La grande assente
Nellla sua pellicola Rossellini cela un virtuosismo narrativo in grado di evidenziare ulteriormente l’evoluzione della postura morale del suo protagonista. Il carisma interpretativo di Vittorio De Sica contribuisce, poi, a rendere l’artificio ancora più marcato. L’ipocrisia, l’immancabile compagna di ogni guerra che si rispetti, viene, da subito, lentamente costretta a barcamenarsi all’interno di un percorso di redenzione, di macerazione interna, che sembra poi attanagliare ogni personaggio del racconto. Tutti paiono complici di questo golgota. Si tende a mostrarsi per quel che si è. La disperazione del mondo strappa le maschere dell’ego e definisce nel dettaglio i lineamenti d’espressione delle coscienze. Un escamotage efficace soprattutto grazie anche alla bravura degli interpreti che coaudiuvano egregiamente la performance di De Sica, rendendola ancor più memorabile. Da Hannes Messemer, il colonello Muller, a Vittorio Caprioli, Banchelli, a Sandra Milo, Olga, a Giovanna Ralli, Valeria, a Nando Angelini, Paolo, solo per citarne alcuni, tutti reggono egregiamente la scena. Con uno spiccato senso del ritmo, fino all’ultima sequenza, nutrono l’insaziabile discernere di quel che è giusto o sbagliato.