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Wenders meets Ozu: un rapporto di (distante) reciprocità

Il regista tedesco Wim Wenders ha sempre ammirato la filmografia di Yasujirō Ozu, come dimostra il suo ultimo lungometraggio atteso al cinema

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perfect days trailer

Sei anni dopo il suo ultimo lungometraggio, Wim Wenders torna al cinema con un nuovo film. Perfect Days, presentato alla 76° edizione del Festival di Cannes, è atteso in sala per il 4 gennaio 2024. Narra di un uomo umile, e lavoratore, di Tokyo e della sua lenta (qui da leggersi in accezione anche positiva) quotidianità. Il protagonista (interpretato da Kōji Yakusho, vincitore del Prix d’enterprétation masculine) ha un atteggiamento di rifiuto della tecnologia, traduzione di un certo attaccamento al passato.

Il film è un omaggio ai piccoli (ma mai banali) gesti e a un’eloquenza che trova in essi una forza ben più potente di quella della sola comunicazione verbale.

Perfect Days è però un omaggio anche a Tokyo, città ben presente nella filmografia di un regista tanto amato da Wenders,ossia Yasujirō OzuUn legame che non è evidente solo nella scelta delle stesse location, bensì in una  lettura del mondo simile, della ripetitività, dei cambiamenti. Ma soprattutto, pur palesandosi specialmente nell’ultimo lungometraggio, l’influsso di Ozu nella filmografia wendersiana si può ritrovare anche in altri casi. Essi hanno in comune quella costante ricerca della semplicità nei dettagli del quotidiano e delle figure e dei luoghi che la caratterizzano.

Una ricerca che è il pretesto per analizzare quasi antropologicamente donne e uomini nella loro routine e permettere al contempo di proporre altri temi. Nella Trilogia della Strada, Wenders sceglie il viaggio come tematica centrale per  soffermarsi su quanto detto in precedenza (l’immagine del treno, tra l’altro, appare cara a entrambi i registi).

La metropoli di Tokyo-Ga: una rilettura wendersiana

L’affezione di Wenders al cinema di Ozu era già chiara quarant’anni fa, quando il regista tedesco, a vent’anni dalla morte di Ozu, aveva deciso di realizzare Tokyo-Ga.  Un documentario che mira infatti a raccontare la Tokyo contemporanea al regista e al contempo riproporre l’iconografia di questa città tentando di rifarsi alla Tokyo di Ozu. Il film è stato girato letteralmente con “telecamera in spalla”: Wenders riprende scene di vita quotidiana, mixandole ad interventi di alcuni dei più fedeli collaboratori di Ozu. 

Il suo intento, esplicitato fin dall’inizio del documentario, era quello di ritrovare familiarità e realtà secondo lui presenti nelle immagini filmiche del regista giapponese, specialmente quando esse ritraevano l’amata Tokyo. Immagini che, mediante scelte registiche ben precise (come la m.d.p. sapientemente posizionata in basso e soprattutto la frequente presenza di “campi vuoti”), erano in grado di rivelare e rivelarsi prepotentemente.

La città di Tokyo-Ga non è però la stessa dei film di Ozu. È una Tokyo diversa, più moderna e frenetica e che ha ormai inglobato prodotti della cultura americana. La metropoli wendersiana è fatta di vizi, solitudine e capitalismo. È certamente un rivelarsi, ma forse più amaro e disincantato della realtà urbana presente nei film di Ozu. La Tokyo di Wenders è probabilmente più vicina all’alienazione de Il cielo sopra Berlino che agli spazi familiari del regista giapponese.

L’aspetto nostalgico di Perfect Days

Hirayama (nome ricorrente anche nella filmografia di Ozu) è il protagonista di Perfect Days e la sua quotidianità occupa praticamente l’intero lungometraggio. Egli è un uomo che si stupisce delle piccole cose (come il fiore trovato per caso in un parco, un tris con uno sconosciuto, una cena fuori) e la macchina da presa wendersiana lo segue nella sua ritmica essenzialità (il tutto accentuato da una recitazione sobria e basata sui piccoli gesti, similmente a quella di Chishū Ryū). Le immagini di Ozu riuscivano a rivelare la loro sostanza impostandosi esattamente in questo modo e Wenders lo ripropone in chiave moderna. Una modernità presente nelle tecniche filmiche tanto quanto in una Tokyo ben diversa sia dal documentario del 1983 che da quella de Il gusto del sakè (1962).

Hirayama sembra non arrendersi a tale modernità, un po’ come diversi personaggi dei film di Ozu. Dunque anche qui, modernità e tradizione si scontrano. É uno scontro però tradotto non in dinamiche matrimoniali e familiari, bensì nella scelta di vivere senza concedersi agli elementi che più contraddistinguono la contemporaneità, ossia la tecnologia e il bisogno quasi ossessivo di riempire la propria quotidianità (che accada con oggetti, attività o entrambi è indifferente). Ma la nostalgia del passato non è dipinta come un rimpianto; piuttosto una scappatoia da una routine spesso soffocante e deprimente, un equilibrio che si incastra (quasi) perfettamente con i tempi che corrono.

Yasujirō Ozu Wim Wenders: due nomi così temporalmente e geograficamente distanti, ma così simili nella loro ricerca filmica. Una ricerca che vede come protagonista l’essere umano e che utilizza le immagini in maniera semplice affinché queste possano rivelarsi.

Entrambi propongono un cinema che richiede allo spettatore attenzione e osservazione: una capacità che si disperde nelle appariscenti immagini filmiche a cui siamo ormai abituati.

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