Presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma nella sezione Free Style, La solitudine è questa restituisce la figura di Pier Vittorio Tondelli attraverso un racconto che mette in scena la sue parole. Del film abbiamo parlato con il regista Andrea Adriatico, già autore de Gli Anni Amari.
La solitudine è questa Prodotto da Cinemare con il sostegno di Pavarotti International 23 srl, Ministero della Cultura – Direzione Generale Cinema, Regione Emilia-Romagna attraverso Emilia-Romagna Film Commission
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La solitudine è questa di Andrea Adriatico è stato presentato alla Festa del cinema di Roma 2023, nella sezione Freestyle.
Andrea Adriatico e la sua La solitudine è questa
La Solitudine è questa è caratterizzato da una ricerca formale che sembra volere aggiungere senso alla storia di Vittorio Tondelli, richiamandone in qualche modo fatti e personalità.
Quello di cui mi chiedi è un aspetto interessante perché una volta sicuro che il progetto sarebbe andato in porto mi sono posto la questione cardine, ovvero quale sarebbe stato il punto di vista che avrei adottato per provare a fare un film su Pier Vittorio Tondelli. Io Tondelli l’ho solo sfiorato, avendo fatto il DAMS dopo di lui e vivendo tra Roma e Bologna però quello che ho percepito è stato il racconto di un autore molto mistificato. Per chi l’ha conosciuto e ha avuto la fortuna di leggerlo è stato fin da subito indimenticabile e amatissimo. Ciò non toglie che, come autore, non è riuscito a mantenere intatta la propria dignità culturale.
Su Tondelli esistevano un paio di documentari, uno dei quali in particolare, per settanta minuti riusciva a non dire una cosa sostanziale, e cioè che Tondelli era uno scrittore omosessuale. Questo è il primo punto. Il secondo è che quando si parla di Tondelli lo si associa al racconto storico e generazionale che dalla metà degli anni settanta arriva fino all’inizio dei novanta, quello per cui la via Emilia diventa la grande e ridente strada americana piena di cose bellissime ma ormai diventate di consumo collettivo. In realtà tutta questa cosa ha svuotato di senso la parola, cioè il tema reale dei contenuti delle opere di Tondelli. Da qui la volontà di fare un film con persone che non avevano mai avuto contatti con lui. Questa è già un’anomalia per un documentario perché in genere quando fai un film così vai a cercare quelli che l’hanno conosciuto e che ne danno testimonianza. Una procedura che a me non interessava poi tanto.
Quella di trasformare il racconto di un’esistenza in una serie di aneddoti?
Esatto. Tutta questa cultura del documentario che deve girare per forza sulla questione delle intimità private non mi interessa. Con la mia ricerca volevo capire come potesse suonare oggi quel tipo di questione letteraria, in virtù di un corpus opera, quello di Tondelli, che secondo me ne fa uno dei più importanti scrittori del nostro novecento.
Ho fatto quindi un film a partire da due dati: il primo è che non avrei mai potuto fare un’opera di fiction tratta da un libro di Tondelli perché non è possibile averne i diritti. Il secondo era di provare a raccontarlo attraverso scrittori di oggi che amo e che avevano la stessa onestà culturale di Vittorio rispetto al tempo che vivono.
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Il racconto di Tondelli
Lo scrittore a un certo punto dice di aver capito che lui non sarebbe mai stato un protagonista del proprio tempo, ma piuttosto un testimone. Tondelli, infatti, è sempre voluto rimanere estraneo alle dinamiche dei salotti che contano e soprattutto laterale anche rispetto alle leadership del movimentismo giovanile degli anni settanta. Un’assenza, questa, che potrebbe spiegare il vuoto in cui si inserisce la mistificazione di cui parlavi e che il film traduce evitando di inserire immagini o filmati in cui lui è presente. Per un documentario come il tuo si tratta di una scelta molto forte.
Sono d’accordo nel dire che si tratta di una scelta molto forte. Nel film il racconto di Tondelli l’ho affidato a quello che lui scrive di se stesso in un capitolo meraviglioso di Week End Post Moderno, intitolato Quel Ragazzo. Tondelli vi fa una narrazione indiretta della sua storia giovanile, del suo non essere realmente parte del suo tempo. Pur essendo nato negli anni settanta ammette di non essere mai stato un movimentista. Dice di essere stato presente e non presente in tutto quello che poi gli è stato in qualche modo ascritto. Per contro è stato uno scrittore molto inserito, nel senso che il successo di Altri libertini lo fece diventare un personaggio di riferimento importantissimo per la cultura dell’epoca. Tanto da congedarsi dalla vita non prima di aver fondato con Alain Elkann e Elisabetta Rasy ed Elisabetta Sgarbi Panta, uno dei più importanti periodici degli anni novanta.
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Parliamo della Milano pre tangentopoli in cui c’era una spinta culturale fortissima.
Quello è stato un momento storico in cui in tutta Europa imperversavano le morti per Aids. Mentre ci lasciavano personaggi importanti come Freddy Mercury e Derek Jarman e in ogni nazione esistevano movimenti narrativi molto forti su una pandemia che è stata devastante dal punto di vista della identità culturale, in Italia tutto ciò è assente e solo il povero Tondelli sembro esserne rimasto vittima. L’incontro con l’HIV per chi come lui veniva dal mondo cattolico fu una cosa deflagrante. Camere separate lo testimonia con un’autenticità che può scrivere soltanto chi si trova in questa condizione.
Mi ricordo che la morte di Tondelli venne percepita come qualcosa da nascondere. Il fatto che fosse morto di Aids fu accolto con grande imbarazzo dalla cultura italiana. Tondelli fu trasformato in una sorta di paria, in qualcuno di cui non si deve parlare. Dunque sono d’accordo con te sul fatto che sia stato in larga parte mistificato. Raccontato per quello che non è stato, a partire dal modo di intenderne la letteratura. Se non si possono dire come stanno le cose e come le ha raccontate Tondelli la cosa più semplice è quella di costruirci sopra esattamente l’opposto della sua esperienza.
Esatto, hai colto in pieno il senso delle cose, anche perché questo atteggiamento ha reso più complessa la gestione della sua eredità. Come spesso capita rispetto al lascito delle grandi personalità non sempre chi rimane è in grado di gestirne il corpus letterario. Tondelli ha messo se stesso nei suoi romanzi e ha raccontato un’epoca con una visione che non era quella della estemporaneità. Lui non è un narratore dei giovani degli anni ottanta. Lo è, invece, della sua esistenza, conclusasi a soli trentasei anni. Dunque è inevitabile che abbia narrato il processo della generazione che gli stava intorno, ma lo ha fatto in maniera non dissimile da come poteva farlo Balzac o chiunque altro scrittore che si mette a narrare le vicende del proprio tempo.
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Il film di Andrea Adriatico: la struttura
La struttura on the road de La solitudine è questa rimanda sia all’autobiografia di Tondelli e dunque alla sua vita raminga, sia a quella dei suoi personaggi che, nell’insieme, si collocano ogni volta in una città diversa dalla precedente. Una scelta formale che restituisce al meglio il desiderio di libertà dello scrittore, deciso a perseguirla anche a costo di pagarne scotto con la solitudine a cui allude il titolo del tuo film.
Sono d’accordo. Sono molto legato a quel passaggio che c’è in Camere separate che poi dà il titolo al film, e quindi all’immagine della persona sola in un ristorante turistico che a un certo punto vede sedersi accanto un estraneo, messo lì dal cameriere senza neanche chiederglielo. Quella è un’immagine assolutamente toccante del concetto di solitudine, ma restituisce anche la dimensione dell’inevitabilità e della modernità di scrivere sulla fine degli anni ottanta. Tondelli parla del concetto delle camere separate in anni che esaltavano il legame e non la divisione. In qualche modo riusciva a porre delle questioni che erano davvero innovative ed emozionanti in un tempo in cui la diffusione dell’HIV spingeva verso il modello della vita di coppia demonizzando la sessualità promiscua. Negli anni in cui nascono le bustine di zucchero separate per evitare che ci si scambi il cucchiaino a tavola lui se ne esce con questa metafora dell’amore a distanza e lo fa legandolo a quella che secondo me è stata la più grande tragedia della seconda metà del novecento dal punto di vista delle relazioni e delle funzioni sociali. Una cosa di cui ancora adesso paghiamo lo scotto. Nel provare a raccontarlo ho usato le parole di Vittorio quindi è naturale che ci sia riuscito.
A conferma di quanto si diceva all’inizio, e cioè che la forma del film riesce a evocare lo spirito, il pensiero, i desideri ma anche l’esistenzialismo del protagonista.
Ecco, forse lì la fortuna per me è stata quella di poter passeggiare in maniera abbastanza libera tra i suoi testi, cosa tutt’altra che scontata. Di un autore magari possediamo un solo romanzo mentre nel mio caso ho potuto fare un vero e proprio viaggio letterario in cui spero si possa sentire l’evoluzione della sua scrittura che arriva a vette di qualità assolute nel romanzo capolavoro che è Camere Separate. Purtroppo quest’ultimo è ancora oggi un’opera poco nota ai ragazzi all’università: quando parlo con loro rimango stupito dall’apprendere che conoscono Pasolini ma non sanno nulla di Tondelli. Se la generazione dei ventenni si ritrova in questo stato anche noi abbiamo qualche responsabilità.
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Il paesaggio
Delle città in cui si dipana il viaggio del film dai una rappresentazione omnicomprensiva attraverso un luogo simbolo in cui il passato, quello in cui è vissuto Tondelli, emerge – secondo la lezione di Andrej Tarkovskij – dal dettaglio di una crepa sul muro o in certi squarci architettonici che il tempo ha reso più o meno fatiscente.
Nel documentario ho considerato soprattutto tre aspetti. Per le città ho lavorato su effetti opposti, mescolando immagini patinate ad altre schiettamente realistiche. L’Aquila, per esempio, è forse la città più importante nella storia di Tondelli perché dopo il processo per oscenità intentatogli dal procuratore generale della città, Altri libertini diventò il successo letterario che lo impose sulla scena italiana. In quel caso ho raccontato la grande cattedrale della processione del Cristo Santo, legandola con una carrellata a uno dei siti del terremoto. Un altro aspetto su cui mi sono concentrato è l’uso del drone che per me non ha soltanto un’importanza tecnica, nella considerazione che stiamo parlando di uno degli elementi della contemporaneità che più fortemente sta incidendo sulla privacy delle persone. Il terzo aspetto è stato quello di utilizzare le parole di Tondelli e non le mie.
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Il tempo nel film di Andrea Adriatico
Nel film l’uso del tempo rientra nel gioco di punti di vista che vede da una parte le parole di Tondelli, dall’altra quelle di commento alla sua opera da parte di un gruppo di scrittori contemporanei under 40. Il film adotta il pensiero dello scrittore che parlava di una doppia esperienza, affermando l’impossibilità di guardare al passato se non facendolo con gli occhi di oggi.
Questo è stato il punto più critico, perché appena si è sparsa la notizia che stavo facendo un lavoro su Tondelli amici e conoscenti si sono offerti di farsi intervistare. Più questo si verificava più mi rendevo conto che sarei caduto nella trappola della museificazione dello scritto e della sua opera. Al contrario mi piacerebbe che la gente dopo aver visto il film avesse il desiderio di comprare un libro di Tondelli.
È quello che è successo a me dopo aver visto il tuo film.
Quando qualcuno a un certo punto decide di non cedere più i diritti dei libri di uno scrittore determina che non se ne parli più. Una delle cose che mi ha fatto più piacere quando è uscita la notizia del film a Roma sono state le parole del mio libraio di fiducia. Mi ha detto di essere felice della realizzazione del film perché i libri di Tondelli continuano a essere acquistati mentre altri suoi coetanei sono diventati pressoché invisibili. Sapere che c’è un pubblico che ancora lo segue, lo scopre e se innamora mi rende immensamente felice. Questo succede perché nei suoi testi c’è un’autenticità di fondo che sa di classico.
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I libri
Infatti quello che hai realizzato è un film in movimento come lo sono ancora oggi le parole di Vittorio. Parlando di Altri libertini nel film si mette in evidenza come dietro la storia si racconti la disillusione politica e sociale di quella che era stata la generazione del settantasette e del successivo riflusso di cui lo scrittore diede conto nella marginalità fisica ed esistenziale dei suoi personaggi.
Come hai giustamente osservato Altri libertini è un libro del 1980, scritto immediatamente dopo il “77”. Nel film si parla esattamente dell’ultima generazione capace di porsi come slogan il tema della felicità personale. Un tema non più moderno perché soppiantato da altre questioni anche fondamentali, ma che ignorano il diritto alla felicità permanente. Quella del ’77 è l’ultima generazione a farlo e per questo viene duramente punita. Sappiamo tutto dell’assassinio di Francesco Lo Russo, già militante di Lotta Continua come pure della devianza operata con la lotta armata. La cosa straordinaria è che lui riesce a ricavarne un romanzo che è una collezione di racconti in cui i personaggi non evolvono da nessuna parte: non esistono eroi positivi, non esiste il cosiddetto percorso dell’eroe che da cattivo diventa buono. Da quattordicenne la lettura di Altri libertini era la fotografia di quello che vedevo intorno, della droga venduta agli angoli delle strade, di certe marginalità sociali che respiravo. Quando questo succede ti trovi di fronte a un autore che lascia il segno, al di là della rottura linguistica, delle parole inventate e di tante altre questioni, come quella dell’omosessualità, tirata fuori in un tempo in cui non era facile farlo.
Tondelli in realtà continua a rappresentare la ricchezza di una generazione che in un periodo così breve ha creato così tanto. Nel film parli anche del suo rapporto con Andrea Pazienza, ma anche di quella che in fondo inquadrandolo all’interno di quello che di fatto è stato il corrispettivo della controcultura americana.
Assolutamente. Anche lì non potevano non inserire la pagina in cui Tondelli scrive di Pazienza.
È straordinaria.
È la rappresentazione di un momento storico di incredibile genialità sviluppatosi in una condizione periferica e sperduta come la via Emilia sperduta che nel film abbiamo rappresentato girando nella vera casa di Pazienza, cercando di immaginare chi era stato al di fuori del racconto ufficiale.
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La parola di Tondelli
Un punto cruciale del film è la maniera in cui rappresenti la parola di Vittorio. Nella divisione dello schermo e nella moltiplicazione delle immagini c’è innanzitutto la parola in movimento, ma non solo, perché il nero che impedisce parte della visione ci parla della censura e della volontà di oscurarne il vero significato. Più in generale la scomposizione dell’inquadratura all’interno della cornice filmica riprende i tratti di quel post modernismo di cui Tondelli in qualche modo diede conto.
Hai detto tutto tu perché è esattamente la strada che ho preso. L’unica cosa che aggiungerei è la moltiplicazione dei punti di vista nel tentativo di rilocalizzare le storie, di farle perderle negli spazi, facendo in modo che non appartengano solo a un luogo, ma che da quello escano, si moltiplichino e facciano altri percorsi e altre visioni. Questo per me era un punto molto importante. Per il resto io non ho fatto niente: quelle parole le ha scritte lui. Io ho solo provato a leggerle. Sono stato un buon lettore di Tondelli, niente di più.
Lo smarrimento di cui parli è uno dei temi affrontati dalla letteratura di Tondelli.
Sì. Tra l’altro ho conosciuto Vittorio in una maniera abbastanza rocambolesca, proprio nel momento in cui lui era al massimo della popolarità. Nel 1988 durante la biennale giovanile a Bologna c’era stata La biennale giovani dell’Europa mediterranea che fu un evento epocale per la città, spingendo molti a scrivere, a fare opere di ogni genere e tipo. Tondelli, attraverso la casa editrice Transeuropa di Massimo Canarini, in quel periodo controllava le nuove forme stilistiche e io poi mi sono accorto nel tempo di avere avuto costantemente rapporti con gli scrittori che venivano fuori da quella scuola. Ne cito solo uno che è Marco Mancassola con cui poi ho scritto un film che si chiama L’amore assente uscito un po’ di anni fa. Con Marco ho ritrovato con esattezza certi percorsi tondelliani e questo vuol dire che tra i pregi di Vittorio c’è stato anche quello di essere un punto di riferimento per altri scrittori.
Non so se sia corretto dirlo, ma con Tondelli si compie il passaggio che va dalla Beat Generation dei vari Kerouac, Burroughs e Ginsberg alla Beaten Generation di cui lo scrittore di Correggio fu massimo cantore. Pensi sia un paragone che si possa fare?
Dico che ti troveresti in grande accordo con Claudia Durastanti che proprio all’inizio della sua intervista lega queste due esperienze come figlie di uno stesso filo: quello di leggere il tema della questione giovanile e non del disagio giovanile legato al tempo di chi vive quel momento storico. In questo c’è un’assoluta somiglianza e parentela.
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Il cinema di Andrea Adriatico
Parliamo del cinema che ti piace.
L’altro ieri ho visto Climax di Gaspar Noe innamorandomi della prima sequenza che dal punto di vista fotografico mi ha fatto impazzire. Se ti devo parlare in termini generali i miei grandi fari sono Derek Jarman, Fassbinder e naturalmente il mio adorato Pasolini.
Ecco pensando a Jarman e guardando la messinscena del tuo film mi è venuto in mente Blue. È corretto dire che è stato un film che l’ha ispirata?
Correttissimo perché per me Jarman è un riferimento costante. Ogni anno la mia prima lezione di cinema consiste nel far vedere ai ragazzi Blue per far capire loro il valore della video arte nel suo grado zero e cioè il monocromo blu come riferimento visivo per eccellenza. La sua visione ci fa aprire altre prospettive. Chi è abituato all’iper produzione di immagini dopo averlo visto inizia a considerare le cose da un’altra prospettiva. Per me quello è sicuramente un punto fortissimo. Nel mio film c’è una citazione, molto buffa e celata, perché l’ultima scena dell’inserto dedicata a Pao Pao l’ho girata sul ponte di Testaccio nel punto esatto in cui muore il protagonista di Accattone.