Tra il 21 e il 29 luglio avrà luogo presso Revine Lago, in Veneto, la diciannovesima edizione del Lago Film Fest, kermesse cinematografica che oltre a esibire il fascino di una location unica nel suo genere sta mettendo in luce, di anno in anno, uno spirito di ricerca non comune e la volontà di sondare nuovi territori dell’immaginario cinematografico.
Non a caso ad averci attratto subito, in un programma così ricco, è stato l’attesissimo focus sulla fantascienza cinese. Chi ha avuto la fortuna di seguire in questi anni il friulano Far East Film Festival s’è reso conto innanzitutto di quanto i generi in Cina si stiano sviluppando nelle direzioni più svariate, sia che le ingenti risorse messe a disposizione portino verso un gigantismo produttivo para-hollywoodiano, sia che si tentino strade più personali, autarchiche. La science fiction locale resta però uno dei terreni meno battuti nelle rassegne nostrane, sebbene proprio negli ultimi tempi si cominci a registrare un’inversione di tendenza. Ben vengano allora iniziative come quella del Lago Film Fest, col focus programmato a luglio in cui campeggiano addirittura quattro titoli, brevi nella durata, ma piuttosto differenti tra loro in quanto ad approccio al genere; tanto da rappresentare altrettante possibili declinazioni dell’immaginario fantastico.
Man in the Well: il ruvido post-apocalittico
Noi di Taxi Drivers abbiamo avuto il piccolo privilegio di visionare tali opere in anteprima, per cui sarà un piacere illustrare ciascun cortometraggio tracciandone le coordinate essenziali. A partire magari da Man in the Well, che si trascina anche dietro – come il cadavere del racconto – una storia tragica: ne è autore infatti Hu Bo, scrittore (con lo pseudonimo Hu Qian) e cineasta suicidatosi purtroppo a Pechino nel 2017. Il suo unico lungometraggio, An Elephant Sitting Still, è uscito poi postumo nel 2018. Ma aveva intanto realizzato ben tre cortometraggi, l’ultimo dei quali è proprio Man in the Well (2016), terminato poco prima della sua morte.
Agghiacciante risulta del resto accostare a tali circostanze biografiche il clima funereo, disperato, morboso, che si respira per tutto il corto. Curatissima fotografia in bianco e nero. Riprese nervose che conducono lo spettatore in uno spettrale mondo di quartieri in rovina e fatiscenti edifici. Questa, a livello estetico, è la cornice dove vediamo muoversi due ragazzini coperti di stracci, sopravvissuti a chissà quale immane tragedia. Fino al rinvenimento del corpo di un uomo, apparentemente morto e incatenato a quelle macerie in una maniera che desta impressione, quasi oscena, tale da ispirare ai giovanissimi scopritori – nella pressoché totale mancanza di cibo – idee estreme assieme a qualche scrupolo forse tardivo…
Siamo insomma in un ambito post-apocalittico, che potrebbe anche ricordare la parafrasi di The Road (il film di John Hillcoat, come pure il romanzo del grande Cormac McCarthy) in salsa orientale. Turba semmai il mood ancora più crudo, minimalista, scabroso, radicale quanto lo sono l’uso del bianco e nero e le estenuanti dilatazioni temporali. Non sorprende poi tanto, a tal proposito, far caso nei titoli di testa all’iconica presenza di Béla Tarr, col Maestro magiaro evidenziato nel ruolo di supervisore di un First Training Camp collegato evidentemente alla produzione del corto. Forse è solo un volo di fantasia, chissà, ma ci piace pensare che l’estetica rigorosa del regista di Sátántangó e Werckmeister harmóniák possa aver ispirato il giovane autore cinese (impegnato qui nel molteplice ruolo di sceneggiatore, regista e montatore) precocemente scomparso.
Double Helix: rischiose doti pirocinetiche
Volendo fare un po’ di cabaret, si potrebbe anche dire che abbiamo assistito, da parte dei cinesi, alla piro… cinesi! Questa infima boutade prendetela pure come un modo per sdrammatizzare. Poiché Double Helix (2021) di Sheng Qiu è un lavoro davvero inquietante, oltre ad essere – almeno a nostro avviso – uno dei più risolti e apprezzabili della selezione, tanto sul piano estetico che per l’articolata struttura narrativa. Trattasi non a caso di un corto che dura ben 26 minuti, lo si potrebbe quasi considerare un mediometraggio.
Abbiamo anche qui un misterioso binomio di bambini/adolescenti, in fuga di notte da non si sa quale dramma pregresso. Approdati finalmente in un eremo lontano da tutto e da tutti, si riveleranno al pubblico nella loro essenza in modo tale che da quegli allucinati ricordi, riproposti in flashback con una suspense interna alle inquadrature tutt’altro che banale, si possano dedurre alcune sconcertanti scoperte. Intanto la labile distinzione tra umano e non umano che definisce la loro natura. Ma soprattutto quelle doti pirocinetiche attribuite al ragazzino, che avevano dato luogo in precedenza a un’allucinante tragedia famigliare, scandita peraltro dalle note di un pianoforte; un piano le cui stesse vibrazioni sonore erano state usate come miccia, per scatenare la forza devastante del fuoco. Interessante peraltro annotare, riguardo al conturbante background dei protagonisti, coi loro strani e potenzialmente letali poteri, che nel curriculum del regista Sheng Qiu vi sia anche una laurea in ingegneria biomedica alla Tsinghua, ottenuta prima del master in cinema alla Hong Kong Baptist University.
Go with Her: tensione nello Spazio profondo
Con Go with Her (2023) di Che Yushi si cambia radicalmente scenario: non siamo più sulla Terra, ma in una stazione orbitante nello Spazio, laddove quattro ricercatori apparentemente coesi (nonostante la lunga permanenza lontano da casa) dovranno affrontare a breve scelte difficili, dall’esito potenzialmente mortale.
A livello di eventuali “prestiti” da classici del passato, colpisce nell’accurata descrizione dei membri dell’equipaggio che uno di loro, per l’appunto quello che mostrerà sia un attaccamento morboso all’esito della missione che una natura solo in parte umana, ricordi da vicino figure quali l’ambiguo androide Ash arruolato come ufficiale scientifico in Alien. Girato comunque in bello stile, rendendo credibili gli spazi angusti ove opera la missione spaziale, Go with Her prima ancora che per la regia di Che Yushi o per l’essere frutto di una co-produzione anglo-cinese, si segnala per l’essere uno dei due cortometraggi qui selezionati che si ispirano direttamente alla narrativa di Wang Jinkang, a detta degli esperti uno dei maggiori scrittori di fantascienza cinesi da qualche decennio a questa parte.
The Reincarnated Giant: la versione animata di un incubo
Altro cortometraggio ispirato alle opere di fantascienza del quotato, prolifico Wang Jinkang è The Reincarnated Giant (2021), distopico lavoro che ci trasporta però su un terreno ancora diverso: i disegni animati. Ne è autore Han Yang, classe 1992, che ha conseguito la laurea in animazione presso la Communication University of China nel 2016, per poi completare un master – sempre in animazione – presso les Gobelins, in Francia, nel 2018.
Già a livello di lungometraggi e produzioni più commerciali la grande nazione asiatica ha compiuto un enorme balzo in avanti, negli ultimi anni, sia sul piano di una maggiore autonomia espressiva che su quello delle competenze tecniche e stilistiche. Vedi ad esempio il caso dell’animazione 3D di I am what I am, il film di Sun Haipeng realizzato nel 2021 ed approdato sugli schermi italiani il 25 aprile del 2022 grazie al Far East Film Festival: bel racconto di formazione, incentrato sulla dedizione di un giovane alla tradizionale Danza del Leone, di cui avevamo apprezzato anche la fluidità dell’animazione e la cura dei fondali.
Pure il versante più autoriale dell’animazione sta facendo sentire però la sua voce. In The Reincarnated Giant il futuro a dir poco apocalittico e degradato dell’umanità, piegata da una serie di guerre nucleari, sembra arrivare a un punto di svolta grazie alla decisione del miliardario Konkai di reincarnarsi in un bambino gigante, assimilato ben presto a una figura divina, il cui respiro e la cui crescita vengono propagandati quale unico scopo di vita per tutti gli esseri umani, a partire dalle madri costrette come animali in batteria a donare il loro latte. Una metafora pungente, ben accompagnata dalla visionarietà dell’animazione, che, pur prendendo apparentemente spunto da “cult” assoluti come The Matrix, allude con sagacia ad affanni, conflitti di valori e dilemmi etici presenti su scala planetaria, indubbiamente, ma a serio rischio di svilupparsi in forma ancor più aggressiva, perniciosa e opprimente nell’assetto sociale della Cina contemporanea. Assieme a quelle forme di controllo così pervasive, che stanno purtroppo attecchendo un po’ dappertutto.