‘Anna Magnani, l’irripetibile’. Questo il titolo di una delle retrospettive della 37a edizione del Cinema Ritrovato dedicata alla diva italiana a cinquant’anni dalla sua scomparsa (e che ha incluso anche capolavori come Roma città aperta, Bellissima e Risate di gioia).
La più virtuosa, amata e applaudita tra le attrici italiane a livello globale, un modello imprescindibile di recitazione così duttile, personale e sofisticata, pur nella sua genuina anima popolareggiante, da essere accolta dal teatro d’autore, dalla rivista, dal cinema, dalla televisione (non senza le ritrosie iniziali di addetti del settore, nella cecità di fronte a un’eccellenza inclassificabile).
La genesi di un adattamento cucito su Anna Magnani
The Rose Tattoo (1955) di Daniel Mann rappresenta il coronamento ufficiale del percorso artistico della Magnani, vincitrice di un Oscar come miglior attrice protagonista in un’annata in cui prevalse su Katharine Hepburn in Tempo d’estate; ma l’interpretazione nel film le valse anche la conquista di altri riconoscimenti prestigiosi, come il Golden Globe, il Bafta, il premio del critici di New York.
Altrettanto fuori dall’ordinario e onorevoli furono le circostanze alle origini di The Rose Tattoo, tratto da una pièce di Tennessee Williams: il celebre drammaturgo statunitense scrisse il testo teatrale appositamente per l’attrice romana, ma, considerate le titubanze di lei nel recitare in inglese sul palcoscenico, optò quindi per cederne presto i diritti per una trasposizione sul grande schermo, a condizione che la Magnani vi recitasse come protagonista e che lui stesso firmasse la sceneggiatura.
Nonostante un interprete di supporto come Burt Lancaster, gioviale e assecondante, la somma degli addendi tra sceneggiatore e interpreti non confluì tuttavia in un risultato degno delle aspettative, con la potenzialità (almeno sulla carta) di un melodramma compassionevole e spumeggiante, con lo scenario torrido e seducente del profondo Sud degli Stati Uniti, che non può che rievocare la meritata fortuna del capolavoro di Tennessee Williams e di Elia Kazan del 1951, Un tram che si chiama desiderio, dove giganteggiavano Vivien Leigh e Marlon Brando.
La regia di Daniel Mann non conferisce continuità di ritmo, scivola nella ridondanza drammaturgica, si àncora a soluzioni sicure ma convenzionali, assegnando il traino narrativo alla Magnani stessa, che conserva, maneggia e plasma a piacere il suo fuoco sacro, la fisicità mediterranea e divistica, il vortice di umanità empatica, l’immedesimazione rispettosa e inventiva del personaggio.
È la storia dell’immigrata italiana Serafina, moglie tradita e ignara, che alla morte improvvisa del coniuge, un uomo di malaffare, si chiude in un patologico lutto di clausura, rifiutando la pubblica verità sui traffici loschi del marito, trascinando con sé nel baratro della disperazione anche la figlia; sarà un altro italiano, Alvaro (Burt Lancaster), ad iniziare Serafina alla rinascita, con nuove prospettive di vita anche per la figlia, innamorata e ricambiata da un coetaneo.
Un film d’attrice
Anna Magnani è al centro del film, è il film stesso e amaramente la sua unica ragione d’essere; nel suo abbecedario delle sfumature della cronicizzazione del dolore l’attrice sonda tutte le variazioni possibili e opposte della caratterizzazione della matriarca siciliana, eludendo i cliché e anzi sfruttando con mestiere e intensità il ventaglio di approdi espressivi: melodrammatico, romantico, comico.
Un talento nel conferire autenticità psicologica e presa emotiva del personaggio che sfonda lo schermo in due sequenze, quella dell’annuncio della grave perdita del marito e la crisi nevrotica con il parroco. Nella prima l’attrice si insinua con la gestualità caricata delle mani e con la profondità vitrea dello sguardo nel baratro tra l’indicibile da scongiurare e l’appiglio a una quotidianità ormai inconsciamente lacerata, conferendo a Serafina la tragica statura funerea di una protagonista del teatro greco.
L’altra sequenza gioca invece sul climax quasi impercettibile di malessere e collera, fino all’irruenza finale, dove la Magnani si laurea a raffinata e tenace orchestratrice di emozioni inestricabili, tra l’intimistico e il pathos. E l’Academy, in una storia di assegnazione dei premi talora controversa, fu con la primadonna di The Rose Tattoo particolarmente lungimirante.