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Altre considerazioni su “Diaz” di Daniele Vicari

Data la delicatezza delle questioni trattate, torniamo a parlare di “Diaz”

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A quasi undici anni dai tragici fatti del G8 di Genova arriva nelle nostre sale il primo film di “finzione”, rigorosamente basato sugli atti giudiziari relativi alle violenze della Diaz e alle torture di Bolzaneto. Qualcuno ha voluto smorzare la portata storica di questo vero e proprio evento della nostra cinematografia, affermando che sul G8 di Genova si era già visto tutto ciò che c’era da vedere grazie alle migliaia di videocamere amatoriali e telecamere dei mass media presenti sul posto in quei giorni. Chi sostiene questa tesi e stronca la pellicola di Vicari non ha capito alcunché perché, come dichiarato più volte dallo stesso regista, l’opera si concentra principalmente su quel che avvenne alla Diaz e non sul G8 in generale, ed in secondo luogo perché non abbiamo filmati che documentano le feroci e disumane violenze commesse dalla polizia all’interno della scuola. Sappiamo ciò che è successo dalle testimonianze dirette delle persone che hanno subito i pestaggi e abbiamo visto le riprese dell’uscita dalla scuola dei “prigionieri”, come li definisce un poliziotto nel film, sostantivo che rende benissimo l’atteggiamento folle e bellicoso delle nostre autorità in quei giorni.

Per realizzare il film, coproduzione europea che coinvolge Italia, Francia e Romania (Fandango, Le Pacte, Mandragora Movie), Daniele Vicari e Domenico Procacci (quest’ultimo ha fortemente voluto il progetto e nel 2011 ha prodotto sullo stesso argomento il potente documentario Black Block) hanno dovuto girare in Romania a causa delle tante difficoltà riscontrate qui da noi. Questo elemento la dice lunga sulla condizione attuale della nostra democrazia, così come la nota divulgata, in prossimità dell’uscita del film, dal Ministero dell’Interno che proibisce agli agenti di polizia di rilasciare interviste e partecipare a dibattiti senza l’autorizzazione da parte dell’Ufficio Relazioni Esterne della Polizia di Stato. A completamento di ciò, si aggiunga che ad oggi non sono ancora pervenute le scuse o ammissioni di colpa da parte dei vertici della polizia e che il parlamento italiano, come ricordato sui titoli di coda del film, ha negato per ben due volte l’istituzione di una commissione d’inchiesta sui fatti di Genova. Come vediamo c’è poco da stare allegri, poco o nulla è cambiato da allora, i principali colpevoli non sono stati puniti ma hanno addirittura fatto carriera. È in questo quadro di totale ingiustizia che Vicari vuole attirare l’attenzione su quelle ignobili violenze definite da Amnesty International come “la più grave sospensione dei diritti democratici in un Paese occidentale dopo la Seconda Guerra Mondiale”.

Diaz è quasi un film di genere, con una messa in scena davvero potente: l’arrivo notturno alla scuola delle camionette della polizia, visto con gli occhi dei quattro ragazzi che si rifugiano nel bar per scampare al massacro, rievoca un certo cinema carpenteriano. La fotografia di Gherardo Gossi è “sporca” e sgranata, e le musiche di Teho Teardo risultano efficaci e ben calibrate, perfettamente incastonate con le canzoni di Manu Chao, Tricky e dei Massive Attack presenti nel film.

Il regista sceglie una narrazione corale, incentrata su tanti personaggi ispirati ai protagonisti reali di quella terribile vicenda, seguendo il precipitare degli eventi da diversi punti di vista. Vincente e azzeccata la scelta di mantenere l’intreccio linguistico che caratterizzava Genova nei giorni del G8, evitando di doppiare in italiano le diverse lingue parlate dai personaggi del film provenienti da tutta Europa.

Nella prima parte la narrazione è tutta in crescendo, prosegue per salti temporali, in un continuo e teso avanti e indietro degli avvenimenti sino all’irruzione notturna dei trecento poliziotti alla Diaz. La parte della mattanza perpetrata dagli agenti all’interno della scuola ci catapulta in un film horror, con immagini dure e forti, a tratti insostenibili, che ci scuotono fino alle lacrime e ci fanno provare tutto il terrore e l’incredulità delle 93 persone che si erano accampate alla Diaz, una delle sedi del Genoa Social Forum, per passare la notte del 21 luglio 2001.

Nel cast corale spicca l’interpretazione di Claudio Santamaria nel ruolo dell’agente Max Flamini, ispirato alla figura di Michelangelo Fournier, capo del VII nucleo sperimentale del I reparto mobile di Roma, perfetto nel rendere il raccapriccio e l’impotenza del suo personaggio difronte alle violenze inferte dai suoi colleghi. Il suo “I’m sorry”, rivolto con pudore e vergogna ad una delle vittime, stona e contrasta con l’ambiente circostante, imbrattato di sangue e abitato dai corpi feriti di una generazione andata a Genova per manifestare il proprio dissenso verso le politiche dei “grandi” della terra e rimasta, invece, traumatizzata dall’orrore visto e subito.

Alla Diaz seguì una breve tappa in ospedale dove furono offerte le prime cure mediche agli arrestati, prima di ripiombare nuovamente nell’incubo all’interno del non-luogo della caserma di Bolzaneto, in cui vennero torturati e privati di ogni loro diritto. La pellicola di Vicari mostra ben poco delle sevizie commesse al suo interno, proprio perché preferisce concentrarsi su quel che accadde nella scuola. Diaz, così come Black Block di Carlo Bachschmidt, è un’opera necessaria e di grande impatto, che andrebbe vista dal maggior numero possibile di persone per non dimenticare mai ciò che avvenne e per far sì che non (ri)accada mai più.

Boris Schumacher

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